martedì 30 aprile 2013

Da: "Formicaio barocco" - 2004

COMMIATO
All’ora solita venne il figlio
Che andava a dar forma alla resina.
Acconciò tra spalle e testiera il cuscino
Ti rimboccò e dette l’arrivederci.
Accanto guardasti quella figlia strana
Dormiente nel suo letto – una spina d’amore:
La penultima nata di sette fioriture.
Non seppe. Non s’accorse di quello sguardo
Lieve che l’accarezzava.
Aprile ti chiamò con voce partigiana
I piccoli occhi li volgesti fuori dai vetri:
Monte Ofelio era là imponente e onesto.
Un vento giovane scherzava con gli ulivi.
D’improvviso spalancò quel vento la finestra
E ti sollevò leggera oltre gli ulivi.
Oltre il monte. Oltre la conta del Tempo.
Dove l’argomento zittisce
All’uscio del Dio invocato.
(8 aprile 1991)



*

INFANZIA                           
                                       a Osvaldo
A quella latitudine passammo
Come carta d’ingiallita stampa
Fu facile al vento portarci
Solo gli uccelli ci seguivano.


*

ALLA PORTA
Bussò ripetutamente
Ma nessuno gli rispose
Allora si posò in terra
E decise di aspettarsi.


*

APPARENDO GIORNO
Canta gallo canta canta!
La pietà d’ammaestrati antri
Alle tenebre è già piegata.
Nelle stanze del risveglio
Indomàte porte sono
Agli stipiti legate.
(Avremo noi sferze di fuoco?
Il coraggio allattato
Al seno della verità?).
Varcando di porta in porta
Mutiamo verbo e scrittura
Come i fiumi alla foce.


*

A POCO A POCO
A poco a poco degradammo
A venditori d'immagini
Ad alberi senza radici.
A poco a poco dimenticammo
La voce delle promesse
L’amore che comprammo a rate.
A poco a poco lacrimammo
Come i petali la rugiada
Come pioggia sui panni stesi.
A poco a poco – come la sera
Avvolge la cattedrale dell’anima.


*

DE PROFUNDIS
O moltitudine sommersa
Abitatori di pì greco
Deposta l’umana sembianza
Concime divenite d’orto
Mèmori delle nostre bocche.


*

DI SERA
Cuore mio! Naufrago
Su quest’isola d’ossa
Fatta e carne: sai tu
Giudicar misure?
Sai tu di questo scoglio
I confini?


*

A PRIMO LEVI

                                       Ma non sapevamo, Signore,
                                                    quanto è difficile essere liberi.
                                                                (D. M. Turoldo)
  
L’ippocastano di corso Re Umberto
Non l’ho dimenticato – poeta –
Vecchio e senza vergogna di sbocciare
Fra le lamiere delle automobili.
Tu lo spiavi da dietro la finestra
E stupivi al cambio di stagione
Che cacciasse frutti
Lungo il filo spinato dei rami.
Quasi miniera o cava abbandonata
Ad ora incerta ti chiamavi
Per sterrare dalla memoria
La ragione delle assurde cose:
Quell’endemico tramandarsi
Di vinti e vincitori
             Oppressi e oppressori
                              Vittime e carnefici.
Sì. Lo ricordo l’ippocastano – poeta.
Con le mie pupille l’ho veduto
Piantato nel cemento
A ridosso dei binari del tram.
Ma ricordo di un aprile ancora
E una scalinata inghiottita dall’oblìo
Che più nessuno sale. Più nessuno
Alla porta del perché.

(1997)


*

MEMORIE DI UN VINCITORE
Fu una mossa improvvisa
L’eco d’un sodalizio di muscoli.
Nel cerchio della storia feci il mio ingresso
Di popolo e suoni il tripudio poi.
Ma la notte salì lasciando all’alba
(Che in un giorno ne portò altre ancora).
Passò l’allegrezza e i musicanti
Uno alla volta andarono via.
Su un trono di paglia ora narro alle mosche
Nelle mani stringendo il trofeo.
Con me un’ombra indica l’assenza
E un brivido chiama il nome che porto.


*

IN SEGRETO
Signore – ho pena
Dei miei fratelli umani.
Ho pena dei loro acerbi convincimenti
Del loro essere nani
E vedere sé giganti.
Ho pena della loro finitudine
E del non crederci loro abbastanza.
Ho pena di me
Che troppo li somiglio.


*

LA VOLPE
Come se non fosse
O secchezza di pozzo
                                           Vuoto
                                                              Lettera morta
Il sangue della volpe per inganno di tagliola.
Con la ferita aperta e la zampa in congedo
Dolorante s’affretta alla tana
                                                           Nell’anfratto:
                                                                                         Là
Celato da una coltre di foglie il pertugio
Scova e ratta s’ammusa in quella viscera
E del fogliame appassito lo scricchìo
Al sordo silenzio tutt’attorno.


*

ET CETERA
Oltrepassò il cancello
E percorse il lungo viale alberato
(Tra i rami filtrava
La canzone mattutina).
In fondo al viale era una casa incustodita
E da una finestra qualcuno
L’osservò giungere all’ingresso.
Salì le ripide scale
Entrò in una stanza
S’avvicinò alla finestra
E guardò fuori: qualcuno
Oltrepassava il cancello
E percorreva il lungo viale alberato
(Tra i rami filtrava
Il canto di mezzogiorno).
Giunto all’ingresso
Salì le ripide scale
Entrò in una stanza
S’avvicinò alla finestra
E guardò fuori: qualcuno
Oltrepassava il cancello
E percorreva il lungo viale alberato
(Tra i rami filtrava
Il coro delle stelle).
    ……


*

DIMMI AMORE COME TI CHIAMI?
Questo troppo cuore che mi sboccia
– Che torna a sentire la primavera
E lungo il sentiero trova del mosaico
La tessera mancante – non comprendo.
                          Dimmi amore come ti chiami?
Con la sera si traveste da buffone
Divertendo l’umanità della strada
E i colori dell’arcobaleno si mescolano
Alla stanchezza d’ogni animale.
                          Dimmi amore come ti chiami?
Ruggendo alle catene degli anni
Si è fatto marinaio capace
E spiegando al vento le malconce vele
La rotta mi segna il fuoco e il sogno.
                          Dimmi amore come ti chiami?
– È tutti i nomi il nome che chiedi.


*

QUI
No. Non ora. Andate pure.
Incominciatevi voi per la ferrovia
Prima che l’ultimo treno s’avvii.
Io devo ancora innaffiare le piante
Portare la ciotola al cane
Mettere a posto la dispensa.
Ho ancora da scrivere lettere d’amore
– Una certamente può bastare
Se solo fossi dalle parole obbedito.
Ho da ricevere ospiti – anche. Non tutti
Sanno le cose che non ho fatto
Nel tempo in cui ciò avvenne.
A nulla vale chiudere la porta
Se il cieco passante non distingue
Il mio cappello nuovo alla partenza.


*

LE PAROLE CHE HO DETTO
Le parole che ho detto
È capitato a volte d’incontrarle
A distanza di tempo.
Stavano alcune nell’indifferenza
A bere al tavolino d’un bar.
O nude come corpi – altre
Mendicavano un destino
Sotto i portici della stazione.
Pure le ho sorprese a rincorrere lucertole:
Provai a chiamarle
Ma si nascosero dietro una siepe
Con sollievo delle loro prede.
Allora capii che bisogna lasciarle andare
Le parole.
Che una volta annunciate
Appartengono a se stesse: ipotesi
Che non dimostrano più
Il teorema delle nostre illusioni: tracce
Di ciò che solo sapemmo essere.


*

CARTOLINA
Abbiamo indagato l’infinito
Accorciato il tempo e lo spazio
Nell’officina dell’inquietudine.
Fra i vortici dei pianeti si dilata
Fin dentro i pori del cosmo
La pupilla dell’Io terrestre.
Avvolti da una sottile foschia
Nell’allegoria dei passi
Ancora portiamo i morti a spalla.