martedì 20 maggio 2014

La primavera egiziana del 2011, poesia e rivoluzione

http://www.edizioniensemble.it/
La poesia ha sempre svolto un ruolo di grande importanza nel mondo arabo.
Il saggio di Husayn Mahmud, studioso di letteratura comparata e professore ordinario di letteratura italiana presso la Misr University for Science and Technology a Città del 6 ottobre (Egitto), analizza e approfondisce il ruolo della poesia all’interno dei recenti avvenimenti che hanno sconvolto il mondo arabo, con un occhio sempre rivolto a quello che sarà il futuro della rivoluzione e dell’impegno poetico.


giovedì 8 maggio 2014

Poesia italiana oggi, una diagnosi

Benny Nonasky
di Benny Nonasky





(Benny Nonasky) – “Leggere poesia la emoziona meno di un tempo?

Dipende dalla poesia. Se si tratta di poesia araba, la mia risposta è sì. Mi tocca e mi sorprende meno di un tempo. Sono diventato più esigente, e la poesia araba ha perso la capacità di stupire. Si è un po’ standardizzata. Quando però leggo certi poeti stranieri, soprattutto della prima metà del Novecento, mi sento sempre aperto: questa poesia è ancora capace di meravigliarmi e commuovermi. Ho l’impressione che gli arabi si stiano dirigendo in un luogo che gli altri hanno abbandonato da oltre un secolo”.

Questo testo è ripreso dal libro-intervista “Oltre l’ultimo cielo”, dell’ormai scomparsa casa editrice Epoché, del grande poeta palestinese Mahmud Darwish. Ora trasformate la parola “araba” in “italiana” e scoprirete che, più o meno, è il resoconto della nostra situazione poetica in questo periodo di conclamata vanità letteraria e depressione internautica.


Non ci sono scuse: il dramma è scolpito nei nuovi centri della cultura (Facebook) e nei sofismi dei più furbi (Riviste, Case editrici, Amicidegliamici). Nel primo caso troviamo un’improvvisa e folta popolazione di giovani, maturi e anziani uomini che per millenni si sono nascosti agl’occhi del mondo e che improvvisamente, entrando in quelle comunità di ubriachi cazzi nostri ovunque, hanno trovato l’eldorado: finalmente possono postare al popolo di internet la loro poesia o pubblicizzare il loro libro pagato a rate – “perché ho acquistato (da contratto; obbligatoriamente) delle copie del mio libro”. In poche parole, hai venduto la tua arte oggi per riacquistartela domani. Quindi la poesia è diventata un mercato nero dove tutti possono acquistare, gratuitamente nel maggior dei casi, delle opere o vendere, o donare, le proprie; senza regole e senza merito.

Nel secondo caso, troviamo invece quei misteriosi posti dove, invece, si deposita il nuovo potente sistema, chiuso a chiave, dove si annidano i vecchi professori e i nuovi astri nascenti. I luoghi possono essere una Einaudi, una Lietocolle, una Mondadori, una Marcos y Marcos o una Crocetti Edizioni. I vecchi possono essere un Buffoni, un Testa, un Cucchi, una Gualtieri, un Piersanti, un Magrelli, un Risi, un Vitale. E questo è il primo punto. Poi ci sono altri luoghi. Come la rivista “Poesia” o la rivista “Le parole e le cose” o “Poeti e Poesia” o “Atelier”. E qui dentro, oltre ai vecchi, che sono ovunque e senza fissa dimora, troviamo gl’astri nascenti: Matteo FantuzziMaria BorioCarlo CarabbaRoberto CesconTommaso Di DioDavide Nota. Questi ed altri sono coloro che credono o che vengono definiti “i più importanti e giovani poeti della poesia contemporanea italiana”.
E non mi sto inventando nulla: lo si legge tranquillamente in giro.


Ma visto che ci troviamo in un paese dove i concorsi non valgono nulla (e vengono vinti da parenti o vicini di casa), dove le pubblicazioni sono a maggioranza a pagamento e hanno un peso medio di tre mesi in uno scaffale remoto, o in basso, di tutte le librerie; dove le manifestazioni e i festival letterari sono un ritrovo di quattro amici al bar e un matrimonio festante in una chiesa lì vicino; dove, rasentando la terra, i gusti sono gusti; e se nessun recensore è degno di nota e di rilevanza a meno che non sia un amico o un guadagno da quattro o cinque soldi (le recensioni sono sempre e tutte bellissime): chi fu colui che impresse nel gergo comune tale medaglia di merito a così giovani e belli figlioli – ormai già ricurvi dal vecchio?

L’ERA DEL CAOS. (Sbocciano dal nulla, seminati e coltivati da un contadino anziano. Siamo nell’era del caos. Tutto è possibile. Tutti sono re e regina in un regno autogestito, autogovernato, autolodato.)

Spingiamoci nelle fondamenta. La scuola. Qui si formano le menti e le prime passioni. Qui si creano le primarie emozioni verso o contro la lettura e la scrittura. Ma c’è una nota stonata nella struttura con la quale si crescono tali cose. Cominciamo a dire che secondo le ultime statistiche Istat (2013) sulla lettura in Italia i giovani lettori tra i 14 e 17 anni sono il 39,4 percento, mentre quelli dai 18 fino ai 65 sono sotto la quota del 50. Queste persone hanno letto almeno un libro nell’arco di un anno al di fuori dei testi scolastici o lavorativi. Una miseria. Che riconduco, anche per esperienza personale, alla scarsa attenzione derivante dal piano di studi che annualmente spinge alla noia milioni di giovani ragazzi a invaghire in un passato troppo remoto e, in parte, già conosciuto per film, fiction e documentari presenti ovunque, ogni dì.

I giovani studenti si trovano alle prese con mesi di Petrarca, tre anni di Dante, due di Manzoni, un anno del famoso trio Montale-Ungaretti-Quasimodo. Per non parlare di Storia, ferma al 1945. Come se il mondo fosse finito quel giorno. Bensì è il contrario. La nostra vita è partita dopo quel giorno. Con Fellini, poi gl’anni di piombo, la DC e il PCI, il Vietnam, la Guerra Fredda, il Crollo del muro di Berlino. E la guerra della Russia in Afghanistan, quella del golfo. Berlusconi e Prodi e D’Alema. Il presente che è la storia degl’ultimi vent’anni. E questo vale per la letteratura: CalvinoPasoliniGattoNeruda, Lorca, SzymborskaOrwellCamusCarverOzSaramago.

Faccio solo degli esempi, per dire che un giovane se spinto verso la sua storia troverà più interesse verso un campo che è stato svuotato dalla povertà di un Moccia o un Volo o un Gramellini. Perché se questo è il livello sul quale si basa la grandezza e il mercato del nostro paese, vuol dire che la scuola sta sotto sviluppando i suoi allievi e il loro futuro.

E questo non è solo colpa degl’insegnanti o della politica. Ma viene anche dagl’autori di libri che negl’ultimi cinquant’anni hanno disabilitato ogni impulso di ribellione e di coscienza collettiva, divenendo narcisisti, biografici, invidiosi; indifferenti e disinteressati del lettore e della società che dovrebbero rappresentare e interpretare.


LA POESIA CI SALVERÀ. (Sono i poeti ad ucciderla.)
Leggere Pasolini al parco fa schifo. L’ho pensato mentre lo facevo. Ho dovuto richiudere “Le ceneri di Gramsci” e perdermi in un albero che era un anfratto stempiato tra decine di olmi in primavera.

Pasolini fu quel che fu, come l’ideologia sparsa nelle sue poesie. Più attuali quelle dialettali dove il quotidiano esprime un malessere e un’ipocrisia tutt’ora presenti – lavoro precario e sottosviluppato, borgate putride, tabù sessuale – e dove la lingua si fa più snella e ritmica.

Perché la poetica di Pasolini è dura e ricca di ridondanti pensieri a passeggio per Roma o per le vie d’Italia. È un qualcosa di descrittivo all’ennesima potenza. È un netto taglio tra la poesia ornamentale e simbolica di Montale e quella sentimentale e patriottica di Majakovskij. Per il 1950 e dopo, è un qualcosa di diverso perché è politico e detto con parole comuni, senza paura e senza violenza di gergo (ed è proprio questo linguaggio alto a rendere, spesso, la poesia un po’ troppo secca di pathos e monotona).

Ci voleva una svolta, lui ne è stata una.
Peccato che con lui si sia incarnata l’intera storia poetica che giunge fino ad oggi.

Molti poeti contemporanei tendono a nominarlo per ogni cosa venga detta o fatta nella poesia odierna, come se fosse una scusante o l’unica soluzione possibile. E, mio malgrado, questo vale anche per il signor Montale. Sicuramente un incredibile poeta, fino ad “Ossi di seppia”. Poi è una ripetizione, sempre più striminzita, di quell’ermetismo che si è fatto incendio e che mai ha smesso di bruciare. Come per Berardinelli: “dopo Montale non c’è nessun altro poeta”. Quindi il capitolo è chiuso. Ma non è né può essere così.


Uomo di grande intelletto e di grande forza espressiva fu Ungaretti (forse l’unico, nel trio con Quasimodo e Montale, che meritava il Nobel). Poeta di grande trasporto sociale e meditativo fu Costabile. Giudici lo fu per i primi due libri, “La vita in versi” e “Autobiologia”. Poi divenne ripetizione. Come accadde per CaproniLuziPennaSabaCalogeroBertolucci.

Il problema, che ci attanaglia tutt’oggi, è la lirica e le sue costrizioni metriche e sillabiche. E anche se i temi sono cambiati, permane il desiderio di incatenarci in un Pascoli o in un D’Annunzio, come se rievocare sempre gli stessi matusalemme come principi da cui alimentarsi (per diventare loro) fosse la sola possibilità per fare buona poesia.

Mi fermo a leggere dei nuovi futuristi, della chiusura ermetica di una Biagini o le finte-pop-nerudiane della Calandrone o intime e diaristiche della Gualtieri. Mi fermo a comprendere lo scarso umorismo di un Krumm e le poesie tecno-scientifiche di Sanguineti. Mi fermo ad ascoltare le rimelle della Cavalli (sempre meglio di Piersanti o di Marcoaldi – tremendo) o le montaliane e lamentose di Cappello o quelle lacrimose in vecchiaia di Giampiero Neri. Mi fermo a scoprire giovani autori che sanno di poco o nulla perché hanno letto poco o nulla (e quello che hanno letto è qualcosa sparso su internet o in qualche inutile antologia che non dice niente del lavoro di un poeta – tranne quello che di lui si vuole dire).


Cercando il vuoto siderale in un io depresso e sterile (come la coppia Cucchi-Merini), i nuovi autori si sono rannicchiati sui propri smartphone a vagheggiare in un tetro infinito – di cui Leopardi detiene ancora il monopolio (anche se Santi ha fatto un buon lavoro con il suo “Mappe del genere umano”) – che si inebria in festival e coppe e targhe fatte di quella medesima pasta nera.

In Italia ci sono oltre 1800 concorsi letterari all’anno. I due terzi di questi sono a pagamento, spesso per motivi non dichiarati nel bando. Molti di questi bandi sono fatti a solo scopo di lucro e da case editrici. Capita che la giuria sia sconosciuta fino alla giorno della premiazione. Inoltre, succede che spesso, coloro che bandiscono un premio gratuitamente, successivamente richiedano un contributo per entrare nell’antologia del concorso (dove ci finiscono tutti i partecipanti). Può avvenire che questa richiesta avvenga prima del risultato finale, e questo – si comprenderà facilmente – comporterà un giudizio positivo o negativo per la giuria.

Ora, per spiegare meglio queste cose, farò due esempi che mi sono realmente accaduti.
Tempo fa ebbi una menzione d’onore nel concorso “Premio Wilde” di Bergamo. Dopo aver pagato il biglietto del treno per raggiungere la città (perché difficilmente il concorso include, almeno, un rimborso per il vitto e il trasporto), mi sono ritrovato ad assistere ad una scena surreale e che mi ha spinto ad andarmene urgentemente: uno dei giurati era qualcuno del consiglio comunale che una volta presa la parola disse: “Sono felice di aver fatto parte della giuria anche se, prima d’ora, non avevo letto mai una poesia”.


Pochi mesi fa, invece, sono stato contattato dalla presidentessa di un concorso siciliano che mi comunicava di essere il vincitore. Era gratuito e il primo premio era composto da un assegno di 100€ ed un attestato. Però, dopo aver esternato la mia impossibilità ad essere presente il giorno della premiazione, mi è stato comunicato che non avrei ricevuto nulla se non mi fossi presentato. Non andava bene neppure una delega. Quindi fui scartato.

Questi due esempi confermano la ridicola struttura di questo sistema. Tutto funziona sul “paga e vinci” e sulla mediocrità. Certo non tutti i premi sono uguali. Ma il novantacinque percento di essi, con un giro d’affari che supera gli 11 milioni di euro, per esperienza lavorativa e di crescita e curricula non valgono nulla.


LA POESIA CONTEMPORANEA È DECADENTE. (La poesia contemporanea è un Io morboso, diaristico, privo di un linguaggio ricercato, assente di passione e sentimentalismo civile, umano; banalizzato dai media e da un disfattismo culturale imbrogliato nell’auto pubblicazione vanitosa; decadente; Pound quando lesse la prima stesura de “La terra desolata” di Eliot gli disse di buttarla: lui lo fece e scrisse quel che scrisse poi.)

Do parola ad Edoardo Zuccato: “Oggi la situazione è molto diversa, aperta senza inibizioni ai modi di scrittura più diversi. Non si può negare, tuttavia, che l’ideologia di quel passato recente sia dura da smaltire, non solo per il fatto che i ‘maestri’ di allora hanno provveduto e provvedono a riempire di loro seguaci gli ambienti editoriali e letterari. Il modo migliore per sfuggirvi, comunque, resta quello di varcare i confini nazionali, studiando le lingue straniere e scoprendo che i dogmi della nostra tradizione recente semplicemente non esistono. In Inghilterra e in Polonia, in Irlanda e in Scandinavia, in Nord America e nei Caraibi si sono scritte e si scrivono poesie di generi che in Italia erano stati dichiarati impossibili e fuori tempo.

C’è una sola cosa sicura: che la poesia valida, destinata a durare nel tempo, dipende dall’importanza di quello che viene detto e dall’efficacia con cui viene detto, efficacia che è data dall’esattezza sommata alla forza dell’espressione. L’esattezza dipende dalla padronanza dell’arte poetica, cioè della lingua e della tecnica, che si può imparare con la lettura e l’esercizio, mentre la forza è frutto della passione, che non si può imparare o fingere. Come il coraggio di Don Abbondio, la passione, cioè la motivazione profonda, uno non può darsela. È questa la ragione per cui molti poeti, ieri come oggi, invecchiano male”.

La poesia straniera è un forte campo di esperimenti linguistici. Lo si può vedere con la poesia araba strutturata su un canto biblico e una destrutturazione estetica della parola (questo vale anche per i poeti nordafricani, tranne che per l’Egitto ancora racchiuso in una poesia tradizionale che da poco si sta affacciando su quella slabbrata del rap e dello slam; un po’ come avviene anche in Iran).

Lo si può constatare con la poesia saggistica di Ulf Stolterfoht o con la poesia come linguaggio corporale della Draesner. Lo si può dire per la poesia-gioco-canzonata-metropolitana di Paul Muldoon. Possiamo apostrofarlo con la poesia metafisica di Mark Strand o quella sarcasticamente filosofica e quotidiana di Billy Collins.

Ma potrei citare Federico Garcia LorcaPablo Neruda, Wislawa Szymborska, Lawrence Ferlinghetti, Jack HirschmanGeoffrey HillDerek WalcottLes Murray, Mahmud Darwish,Charles SimicBei DaoRobin RobertsonAdonisAbbas Baydoun, tra gli over sessanta (o già defunti). Al di sotto troviamo Olga OrozcoMariano Peyrov, Islam Samhan, Liu XiaoboCarmenYanezOlvido Garcia ValdesNathalie Quintane, Pierre AlferiSteffen Popp.


La poesia straniera non si nasconde sotto l’ombrello malconcio del passato, anzi cerca di evadere dagli schemi preconcetti e viziati dal mainstream culturale. Dal tema civile fino a quello astratto, ognuno percorre una strada verso luoghi già scoperti, ma ancora da esplorare. Perché la parola non ha mai fine.

(Ho letto dei buoni libri che vi consiglio: “Stelle variabili” di Vittorio Sereni, “Elogie del terrore” di Mario Lucrezio Reali, “Mappe del genere umano” di Flavio Santi, “Concessione all’inverno” di Fabio Pusterla, “Le stelle chiare di queste notti” di Ferruccio Brugnaro, “Croce del Sud” di Andrea Garbin, “Dodici” di Francesco Teriaca.)

Fine.

SE PARLO È PERCHÉ… Questo articolo nasce come risposta al commento di Matteo Marchesini uscito sul Foglio il 16 marzo dell’anno scorso col titolo “Quel che resta della poesia”. È scaturito dalla necessità di aggiungere dei punti che, per me, sono importanti per poter definire quella frase così perentoria che il titolo esprimeva. Matteo Marchesini fa un’ottima ricognizione della poesia moderna, affermando cose che anch’io condivido e che ho sentito dire a bassa voce a molti altri. Però, forse perché ha la stessa età dei suoi compagni, ha tralasciato i poeti contemporanei – i cui nomi, alcuni certo, li ho all’inizio citati. Inoltre, come sempre accade, si sofferma unicamente sulla poesia italiana senza affiorare a quella internazionale, anche solo europea. Come se la poesia fosse solo una questione nazionale senza influenze esterne o possibilità d’uscita, un po’ come accadde nella prima metà del secolo scorso.

Nella prima parte del suo articolo, a un certo punto, dice: “In un paese in cui tutti scrivono poesie e nessuno le legge, riuscire a farsi chiamare poeti sembra troppo facile, cioè irrilevante. La causa e insieme l’effetto di questa situazione è la progressiva perdita di distinguere i poeti veri”. È un’affermazione sacrosanta, ma lasciata morire lì perché l’articolo non genera soluzione né pretende di cercarne. In effetti, il testo si evolve in uno sguardo critico sulla critica e sull’interpretazione di poeti che, effettivamente, “ignorano la contemporanea poesia italiana” e “la conseguenza è che i poeti veri vivono una condizione frustante di mancato riconoscimento”.

Ed ecco perché questo mio commento. Perché non voglio dire per poi scomparire. Se parlo è perché ho letto e non mi è piaciuto ciò che ho letto. Questo vale anche contro di me e la mia poesia. Di certo ci sono molte cose da dire e da sistemare. Più di oggi che di ieri. Un sistema marcio e ridicolo che sta completamente allontanando tutti da tutti. Annoiando. Nel silenzio più acuto, dove tutto si fa e si disfa.

Infine, leggendo quest’articolo e guardandomi in giro, ho compreso che la maggior parte dei poeti contemporanei si interessa troppo della questione critica di tutto il perimetro poetico nazionale, ma così tanto da distaccarsi dalla propria scrittura poetica, diventando così non più poeti ma critici cinici sempre pronti a dire l’ultima parola su ogni cosa che accade nella poesia nostrana.

Per fare qualche esempio: Davide Nota si conosce più per i suoi articoli o per le recensioni o per il suo sito Poesia 2.0 che per la sua poesia. Così vale anche per Marchesini o Antonio Bux. I nomi di Matteo Fantuzzi o della Bono rimandano a persone che si interessano di poesia (scrivendone su riviste o travestendosi da giudici per qualche concorso letterario) e non di persone che scrivono poesie.

Molti di loro rientreranno in qualche antologia come quella anniversaria della casa editrice Marcos Y Marcos creata e gestita da Buffoni, che solo pochi acquisteranno e pochissimi leggeranno (forse solo coloro che si interessano di poesia). In definitiva, il loro impegno si rivolge verso la poesia e non con la poesia. Neppure entrambe le cose insieme.

Accade da sempre. E questo è il male più grande.


(Apparso l'8 maggio 2014 su Storie, Rivista internazionale di cultura)