Un interessante e puntuale articolo di M. Marchesini, che condivido in ogni sua parola.
C’è un
racconto di Martin Amis in cui si immagina che le sorti degli sceneggiatori e
dei poeti siano esattamente rovesciate rispetto a quelle reali. Gli
sceneggiatori si muovono in un malsano sottosuolo letterario, arrabattandosi
tra reading, riviste semiclandestine e opere pubblicate alla macchia. I poeti,
invece, lanciano le loro composizioni come fossero film. Contesi da grandi
produttori, guadagnano cifre enormi tra “diritti secondari” e “royalties sui
sequel”. Girano in limousine, scelgono i gadget con cui promuovere una ballata,
registrano l’incasso clamoroso di sonetti intitolati “E’ l’alto suo disdegno di
iersera”, e decidono la cesura di un verso con un agguerrito team
aziendale. Il racconto di Amis suona beffardo soprattutto a orecchie italiane,
dato che da noi, intorno alla poesia, non si riunisce nemmeno quel pubblico di
lettori limitato ma vivace che caratterizza il meno asfittico mondo letterario
anglosassone. In Italia, ormai, dei poeti si parla con imbarazzo. Oggi il poeta
italiano non solo è emarginato, ma non è neanche considerato uno scrittore (dei
narratori che compongono versi si dice: “scrittore e poeta”, identificando la
narrativa con la scrittura tout court).
In un
paese in cui tutti scrivono poesie e nessuno le legge, riuscire a farsi
chiamare poeti sembra troppo facile, cioè irrilevante. La causa e insieme
l’effetto di questa situazione è la progressiva perdita della capacità di
distinguere i poeti veri. Non a caso, anche tra gli studiosi di letteratura si
è creata una divisione dei ruoli netta quanto aberrante. Da un lato c’è il
critico di narrativa, non di rado un uomo di mondo che ama legare la sua firma
ai libri di cui “tutti” parlano, e dunque diffida della lirica, che del resto
non si presta alle sue analisi contenutistiche e poco sensibili alla forma.
Dall’altro lato c’è il critico di poesia, non di rado un critico semifallito,
impegnato a difendere il suo minimo orticello con discorsi che, a chi guardi da
fuori quell’“atomo opaco” che è il mondo dei poeti, non possono non sembrare
bizzarri e futili come lo sono quelli degli iniziati a qualche hobby astruso –
come i gerghi di certi collezionisti, dei somelier o dei maniaci di giochi di
ruolo. I due tipi di critici finiscono per credere che possa esistere una
letteratura sana fatta di compartimenti stagni. E certo è vero che oggi la
prosa italiana è composta da narratori o saggisti che ignorano la contemporanea
poesia italiana: ma si tratta, appunto, di una circostanza patologica, che
impoverisce sia i prosatori che i poeti.
In
generale, la poesia non è più considerata un elemento indispensabile per capire
la nostra cultura. La conseguenza è che i poeti veri vivono una condizione
frustrante di mancato riconoscimento. Siccome latita un’attendibile polizia
antisofisticazione che separi i loro prodotti da quelli degli impostori, si
trovano di continuo svalutati: la moneta cattiva scaccia quella buona. Inoltre,
poiché le collane dei pochi editori ben distribuiti vengono ormai gestite con
criteri di pessimo gusto – spesso sulla base di meri rapporti d’amicizia e di
potere – chi non può rivendicare posizioni di forza, difficilmente arriva in
libreria. D’altra parte, la visibilità non è più proporzionale alla qualità:
oggi il catalogo di Einaudi e Mondadori non vale molto più del catalogo di uno
qualunque di quei piccolissimi stampatori che hanno nomi improbabili tipo
“L’orcio” o “Selva oscura”.
Così,
capita di essere riconosciuti poeti per le ragioni sbagliate, e spesso senza
merito. Per esempio – e qui la patologia italiana è ingigantita dalla
mediatizzazione – si è considerati poeti a causa delle proprie vicende
biografiche: come Alda Merini, della cui produzione si può dimenticare un buon
novanta per cento senza danno. In presenza di un minore appeal esistenziale,
aiuta la longevità, o l’accurata gestione di una fama acquisita quando esisteva
ancora una parvenza di dibattito critico, o magari l’insistenza su certi
stilemi immediatamente riconoscibili. Meglio poi se questa accurata gestione e
questa insistenza manieristica si appoggiano a un potere editoriale (dal caso
nobile di Sereni si è passati a Maurizio Cucchi e Antonio Riccardi), a un più
generale potere “organizzativo” (vedi Davide Rondoni) e magari universitario
(si pensi a Franco Buffoni): ma qui si torna dalla poesia all’estrinseco dato
biografico, di una biografia pubblica anziché esistenziale.
Se si
eccettuano questi casi, è assai scarsa la disponibilità all’ascolto di una
società letteraria che, come la società tutta, tende a rispettare solo ciò che
ha un immediato riscontro mediatico. La poesia, in questo senso, non vale a
formarsi un’identità. Semmai può essere la ciliegina sulla torta, dove la
sostanza della torta sta in una “carriera” basata su altre specialità – una
carriera da romanzieri, da filosofi, da cantanti o da politici (e si aggiunga
pure qualunque altro “mestiere” noto e magari pittoresco). L’importante,
insomma, è che il poeta non sia solo poeta, ma semmai “anche poeta…”: come
dice, sputando, la signorina Silvani, mentre Fantozzi le recita versi di
Lorenzo de’ Medici spacciati per “una mia cosettina giovanile”.
D’altronde,
la sufficienza è più che motivata, davanti ai tanti pseudopoeti che scelgono
questo genere, in sé difficile, solo perché manca una vera vigilanza sulla
qualità dei prodotti, e quindi perché li deresponsabilizza. A chi non vuole
cimentarsi con le fatiche della forma, la “poesia” offre oggi un triste ma
accogliente rifugio, un ambiente di rassicurante anarchia. Quella lirica moderna
che un tempo servì a esprimere il disagio dell’io di fronte alla società
borghese, nella nostra società compiutamente massificata diventa il mezzo più
facile per esprimere una pseudocreatività quanto mai piccolo-borghese. Come ci
sono i pittori della domenica che rifanno Picasso o gli informali (viene
spontaneo, per la dose di arbitrarietà e impostura, il paragone con l’arte:
solo che qui manca la spietatezza del mercato) così abbondano i versificatori
che imitano a costo zero le oltranze della poesia otto-novecentesca.
Questa
mutazione genetica dei poeti italiani è iniziata dopo la generazione dei nati
negli anni Trenta. Di solito in questa generazione – si pensi ai Raboni, ai
Sanguineti – i poeti erano ancora intellettuali a tuttotondo. Ma a partire dai
nati negli anni Quaranta, lo scenario è cambiato. Superando le inibizioni
dovute alle neoavanguardie prima, e poi al rifiuto della letteratura che si
respirava nel clima sessantottino, gli autori della generazione di Dario
Bellezza hanno proposto una lirica molto meno sorvegliata. Negli anni Settanta,
la poesia è rinata come “confessione” o eclettica euforia linguistica, come
esibizione individualistica o scoria postavanguardista stilisticamente
depotenziata. Era una lirica informe, naturalmente postmoderna, nata da una
situazione che anche Pasolini e Montale contribuirono a definire col non-stile
dei loro ultimi libri, e che fu ben fotografata nel ’75 dall’antologia “Il
pubblico della poesia”, in cui i trentenni Berardinelli e Cordelli inserirono i
loro coetanei. Pare che leggendo l’antologia, e le autopresentazioni dei poeti,
Fortini abbia detto che questi nuovi letterati gli sembravano un po’ simili ai
pittori, ormai incapaci di dar ragione della loro opera e di inserirla in un
orizzonte culturale. Come ha notato Berardinelli, già a questa altezza è
diminuita la coscienza critica: si è imposta una nuova naiveté, una creatività
sregolata e autoreferenziale.
Da allora
molte cose sono cambiate. Ma l’autoreferenzialità non ha fatto che aumentare, e
la coscienza critica non ha fatto che diminuire. All’anarchia post-’68 hanno
messo fine una serie di piccoli “colpi di stato”, con cui gli autori più abili
a promuoversi sono riusciti a ottenere una canonizzazione puramente editoriale.
Intanto è dilagato il bovarismo: che presto, esauritasi l’atmosfera
“confessionale”, ha trovato di nuovo espressione nella koinè genericamente
ermetica e nel tenue cronachismo lirico che da molti decenni egemonizzano il
nostro poetese colto. Molti autori, dopo gli esordi informali e sub-letterari,
si sono messi a fare i formalisti, gli iperletterari, gli esoterici. Ma i
presupposti, come ha notato Mengaldo, “restano quelli di una poeticità
privatistica ed effusiva”.
E’ in
questa situazione che la poesia italiana si è svalutata. La “poeticità
privatistica” e l’autoreferenzialità gergale hanno reso i suoi contorni sempre
più opachi. La nuova lirica non era più memorabile, come quella della prima
metà del Novecento; ma non aveva alle spalle nemmeno le impalcature ideologiche
che identificavano i non memorabili esperimenti neoavanguardistici. Rischiava,
insomma, di essere irriconoscibile. A questo rischio, molti autori hanno
ovviato producendo oggetti estremamente stilizzati, muniti di un involucro
esterno in grado di renderli subito percepibili come “Poesia”. Anziché comporre
poesie vere, cioè organismi complessi e resistenti alle riletture, si sono
limitati a proporre un’Idea astratta di poesia – a inventare un’etichetta che
dovrebbe garantire da sola, al lettore distratto, di trovarsi nel magico mondo
della Lirica. Coi resti delle poetiche novecentesche, questi autori si sono
costruiti ognuno una maschera, per recitare sempre lo stesso ruolo nella
commedia dell’arte letteraria. Spesso, senza averne la statura, hanno imitato
in questo Pasolini, che, come diceva perfidamente Raboni, è stato poeta in
tutto fuorché nelle sue poesie: hanno cioè surrogato la rigorosa costruzione
dei testi con atteggiamenti, con pose, o con una patina decorativa e
“poetizzante” stesa su versi di per sé assai sciatti. L’aura perduta del testo
è stata insomma sostituita dal mito dell’Autore, o dall’insistenza su qualche
stilema che funge da logo pubblicitario. Giorgio Manacorda ha esemplificato
così la situazione: “tutti oggi si mettono in posa: Bellezza faceva sul serio
il maledetto (…) Zeichen fa sul serio il dandy, De Angelis fa sul serio il
Poeta, Conte fa sul serio il vate, Magrelli fa sul serio il poeta-intelligente,
la Lamarque fa sul serio l’ingenua, e Mussapi fa sul serio il nulla”; e D’Elia,
potremmo aggiungere, con le sue sgangherate terzine fa sul serio l’éngagé
pasoliniano.
Alcuni di
questi autori trasformano la Poesia in un feticcio, proprio perché non credono
nelle singole poesie. Anziché cercare di volta in volta la forma adeguata a un
contenuto urgente, con onesta perizia tecnica e artigianale, vogliono imporre
un’idea aprioristica della lirica, stilizzando e “mettendo in posa” le idee e i
temi che fiutano superficialmente nell’aria. Questo vizio insieme
contenutistico e formale è del resto ben radicato nelle patrie lettere.
Sessant’anni fa, in “Il poeta col suo io”, Leo Longanesi ne diede una
rappresentazione esilarante. In questa parabola, i passaggi dal clima
carduccian-pascolian-dannunziano a quello ermetico, dalla debole rinascita di
una poesia “civile” ai nuovi ripiegamenti elegiaci post-neorealisti, vengono
ferocemente ridotti ai minimi, tipici termini, con una velocità da gag.
Proviamo a riassumerla e a immaginarne una continuazione, proponendo qualche
parodia delle mode poetiche più recenti. Ecco come inizia Longanesi: “Il poeta
sentì un nodo allo stomaco, poi un alito fresco sfiorò la sua fronte, poi il
suo cuore sembrò uscire dal caldo astuccio del suo petto. Era giunta
l’ispirazione, finalmente! Allora prese la penna, e scrisse:
Ahi, fredda beltà, quanto mi costi!
Lento il tuo sguardo si posa sulle cose,
e squilla il geranio della tua bocca.
Poi si
arrestò e inseguì vaghe immagini che andavano e venivano come folate di vento.
Poi bagnò la penna nel calamaio e al sostantivo geranio aggiunse l’aggettivo rosso: ‘e squilla il rosso geranio della tua bocca’”.
Rileggendosi,
però, il poeta si accorge di essere ancora invischiato nel carduccianesimo.
Maledetta lingua italiana! Ma proprio l’esasperazione gli dà l’energia per
compiere la sua rivoluzione lirica, per far implodere la sua levigata forma
ottocentesca. Approda così all’essenziale Novecento ungarettiano o
quasimodiano:
Sulla tua fredda beltà
squilla
il rosso geranio
della tua bocca.
Da qui, il
gusto della scomposizione gli prende la mano. Mette le parole “in fila indiana,
poi per quattro, poi per tre”. Ma mentre si perde nei suoi giochi novecentisti,
l’atmosfera ermetica è sconvolta dal vento impetuoso della Storia. E come può
lui continuare a cantare tra le nuvole? Quasimodo e compagni insegnano. Ecco
allora che l’engagement trasforma così i versi del nostro:
Sulla tua fronte,
Stalin,
squilla
il rosso geranio
della mia bandiera.
Stavolta
il poeta sente “di aver colpito una musa al cuore”: esce dalla torre d’avorio e
si iscrive al PCI. Ma presto si sparge la voce che i comunisti rischiano di
essere messi fuorilegge. Per fortuna, non ha ancora stampato la sua ode! Basta,
basta politica. E’ ora di rifugiarsi in campagna. Cos’è più un’ideologia? Conta
il rimpianto, il puro sentimento elegiaco dettato da Natura! Così il poeta
torna alla vecchia metrica distesa e zoppicante:
Nella livida luce dell’Avemaria,
si spegne il suono delle tue campane,
o triste pianura di Lombardia.
E questi
versi, il poeta li ripeté più volte (…) e sentì che gli intenerivano il cuore,
tanto più che in quel momento egli stava proprio camminando su un vasto prato
di erba, dove pascolavano quattro mucche: e tanto il prato quanto le mucche
erano di sua proprietà”.
Con questa
ironica e quasi marxistica nota sull’orgoglio di casta, si chiude la parabola
longanesiana. E mettendo insieme i geranii politici, e le relative bandiere,
con la “livida luce” elegiaca del finale in terzine, si vede che il corrosivo
Leo aveva già fiutato Pasolini. In realtà, se si modifica la geografia e si
aumenta la goffaggine, quella terzina potrebbe ormai appartenere all’epigono
pasoliniano D’Elia. Continuando il gioco, tentiamo allora una parodia di questo
poeta, che canta le sconfitte della sinistra immergendole in un fiacco
paesaggismo adriatico. Potrebbe dire il D’Elia: “Nella livida luce dei
rosari/si spegne il mare sulla Romagna che trema/all’ultima voce dei
funzionarii…/Ah, per chi suona la nostra campana, D’Alema?/Eravamo ginestre
aggrappate all’orlo qui/del burrone tra il settantasette e il Pci…”.
Ma il caso
D’Elia è abbastanza isolato. Altre sono le strade tipiche, imboccate
nell’ultimo mezzo secolo dal “poeta col suo io”. Negli anni Sessanta, si è
imposta la neoavanguardia di Sanguineti e sodali. Allora, forse, il
camaleontico poeta di Longanesi vi avrebbe aderito, ragionando in questo modo:
“basta, non è più tempo di rifugi bucolici. Ha vinto l’alienazione. Sì, lo
sento: mi è sottratto qualunque rapporto naturale con le cose. Non mi resta che
rispecchiare l’alienazione che provo attraverso un’alienazione scientifica del
linguaggio”. Così sdottoreggiando, avrebbe trasformato i vecchi versi in un
sanguinetiano pastiche citazionista. Una cosetta del genere:
Ave Maria livida Palus o luce
istituzione o
istituto totalità litania nel cielo che è così bello quando è
bello cioè bellico sotto una campana campa il Kampf
che è Dein non Mein di me troppo melancolico per spargere
sangue che squilla come il geranio ammainato del comitato Central Park
Ma nel
frattempo, a partire dalla lezione di certo Sereni e di certo Raboni, di Nelo
Risi, Luciano Erba e Giorgio Orelli, si è formata un’altra koinè, quella
“lombarda”. Per il pallido lirismo del “medio poeta italiano”, è un vero uovo
di Colombo. In sostanza, replicando gli aspetti esteriori di questi autori –
certo grigiore, certa arida oggettività, certo prosaico cronachismo appena
innalzato da un tono di vaga elegia domestica – il poeta medio li sfrutta per
legittimare la propria aridità formale, la propria povertà stilistica e la
propria impotenza metaforica. Sotto le insegne lombarde, con minimo sforzo
prosodico, può semplicemente elencare gli oggetti che gli sono cari, magari
condendoli qua e là con qualche incongruo grumo analogico, cioè non
abbandonando del tutto il cordone ombelicale che lo lega alle sublimazioni
ermetiche. Ne esce una poesia insieme esile e farraginosa, che ostenta la sua
natura di referto “dal vero”, ma lascia emergere qua e là un grezzo
sentimentalismo. La koinè lombarda ha nutrito i versi depressi di Cucchi e
Riccardi, e quelli spigolosi di Buffoni. Fiutando questa possibilità, negli
ultimi decenni il poeta longanesiano si sarebbe forse detto che era l’ora di
mettere en abyme la mediocrità piccolo-borghese con una poesia altrettanto
mediocre e incolore. Lo immaginiamo mentre rielabora i suoi vecchi temi, così
lombardeggiandoli:
C’è della gente che dice Avemaria
nella pianura con la nebbia
si vede qua e là un lago
oh lucci di nostalgia
quella domenica del ’71 tra le rive in amore
e due gerani innaffiati al balcone da una pensionata mentre
“Ehi, largo” dice da un camion un autista
ai passanti intirizziti
che nei cappotti coi faldoni si muovono
e portano al prete le raccomandazioni
e le bisbigliano coperti dalle campane.
Ma negli
ultimi anni, si è diffusa una nuova koinè. Sulla solita base ermetica, qua e là
mescolata a residui avanguardistici, è nata una poesia dalle pose ieratiche,
insieme chirurgica e viscerale, orfica e truculenta, gridata e cadaverica. Il
suo tema fondamentale è il Corpo. Certo il nostro poeta, dopo aver fiutato le filosofie
francesi alla moda, e le parole-chiave dell’odierna chiacchiera semicolta, si
butterebbe su questo tema con tetra voluttà, pronunciando la parola “corpo” con
la stessa convinzione con cui qualche decennio fa avrebbe pronunciato la parola
“popolo”. Ma a questa altezza, in genere, il poeta ha cambiato sesso, ed è
diventato poetessa: sono infatti soprattutto le poetesse a indulgere alla
retorica sulla corporeità. Questa retorica – con tutti i topoi del
sadomasochismo che si porta dietro, con tutte le immaginabili vie crucis
sessuali – può presentarsi in una forma fredda, da “autopsia linguistica”, o in
una forma infiammata e misticheggiante: ma spesso le due forme si mescolano in
una tonalità che vuol essere rituale, liturgica.
La poesia
del Corpo rappresenta sotto una luce macabra i dettagli fisici e domestici;
mescola volontaristicamente la “carne” ai filosofemi; evoca le tragedie
storiche, o i drammi di cronaca vera, solo per la loro capacità di fornire
immagini morbose, “estreme”, sacre e dissacranti. L’intento è quello di emulare
Amelia Rosselli, ma il risultato è un kitsch che si esprime a volte in testi
debordanti, e a volte invece in testi minimali, che fanno pensare a un
Ungaretti riscritto da una casalinga dark. A nutrire questa koinè hanno contribuito
le poesie rarefatte di Elisa Biagini e le poesie teatralizzate di Mariangela
Gualtieri, i trattatelli urlati di Giovanna Frene e il poetese fluente di Maria
Grazia Calandrone. Imitandole, il nostro camaleontico poeta (o poetessa)
potrebbe riadattare così il suo tema d’inizio:
Ave-Maria
o Ave
Maddalena?
Immacolata o macchiata
lampo nella
carne
(nella clavicola)
che ho
scorticato come
l’animula legata come
capro immolato al
bios-potere o Eichmann
fratello o Eich-Mann affondato
sul campo
spinato sul fiore
geranio di
sangue-campana -
Campana chimera ti
chiamo
sulle tue grandi
labbra di buona
novella
Infine, ci
sono i poeti che bamboleggiano. Che fanno i fanciullini, ma senza la sapienza
metrica di Pascoli. Che amano tanto il cielo, i prati, i fiori, le “stradine”
dei paesaggi patrii. Che tifano per i sentimenti elementari, e spesso per
l’elementare sintassi e l’elementare aggettivazione. Sul confine di questa
categoria troviamo il bucolico Umberto Piersanti, che però ha ancora la
sostenutezza retorica di chi “porge” il distillato di un lungo lavoro:
sostenutezza un po’ comica, sia perché è troppo simile al poetese in cui
scrivono quasi tutti gli italiani che scombiccheranno versi, sia perché sembra
annunciare una densità sapienziale che in realtà si riduce a qualche pensierino
sulla fragilità della vita, inserito in un desueto acquerellismo paesaggistico.
Ma il massimo rappresentante dei bamboleggianti è Claudio Damiani, che certi
critici non esitano a paragonare, oltre che a Pascoli, a Orazio. Se il nostro
poeta si convincesse che il carro vincente è quello di Damiani, riscriverebbe i
suoi versi così bamboleggiando:
Come sono belle le campane
che fanno din don vicino ai biancospini
dietro alla stradina piccola piccola
dove andiamo tenendoci le mani.
Hai visto come sboccia il geranio
bello rosso come la tua boccuccia?
Come fa bene al nostro cuore
l’Ave Maria, che a te fa chiedere:
“Cosa vuol dire Ave? E c’è Dio papà?”.
E io ti lascio la mano e ti do
un buffetto sulle labbra
e dico vuol dire “ciao”,
fai “ciao ciao” con la mano
sì saluta Dio in questo cielo azzurro
tu che puoi ancora.
La
pseudolirica dei poeti tardo-lombardi, dei poeti (o poetesse) mistico-viscerali
e dei poeti bamboleggianti, una pseudolirica ad alta stilizzazione ma a bassa
coerenza tecnica e formale, ottiene il risultato opposto a quello che ogni
poesia dovrebbe proporsi: anziché potenziare il senso della lingua, lo
impoverisce coi suoi stereotipi; anziché fare attrito con gli altri codici
linguistici e con la realtà circostante, si isola in un limbo di futile
arbitrio. Per fortuna, però, accanto a questi pseudolirici ci sono ancora poeti
veri. Ed è venuto il momento di fare qualche nome, o finiremo per contribuire
anche noi a una completa svalutazione del genere. Pensiamo ad autori che
rifiutano l’alibi della stilizzazione e che costruiscono testi densi,
stratificati, di grande coerenza formale; ad autori che non si nascondono
dietro un finto esoterismo, e inseguono anzi la limpidezza, ma una limpidezza
complessa, mai bamboleggiante. Anziché tentare di imporre un’Idea di poesia o
un Personaggio, questi autori si affidano solo al valore artigianale dei loro
manufatti. Non a caso, i loro modelli li cercano spesso in poeti maturati prima
della deriva dell’ultimo mezzo secolo; in poeti, cioè, in cui era ancora ben
viva la concezione della lirica come abile artigianato. C’è chi, come Paolo
Febbraro e Anna Maria Carpi, deve qualcosa a Caproni; e c’è chi, come Paolo
Maccari, ricorda Raboni e Fortini. Patrizia Cavalli ha ben assimilato Penna, e
la giovane Mariagiorgia Ulbar riprende insieme Penna e la stessa Cavalli.
Umberto Fiori ha imparato qualcosa da Sbarbaro, ed Elio Pecora da Cardarelli e
Saba. Dei tempi del “pubblico della poesia”, della creatività sregolata
impostasi a partire dagli anni Settanta, è rimasto insomma assai poco. Fare
poesia col neoromanticismo anarchico fotografato da Berardinelli e Cordelli,
senza finire nel bovarismo, era molto difficile. Forse per riuscirci bisognava
essere davvero, e non per moda, dei “romantici” devoti a un’idea insieme orfica
e confessionale di poesia. E anziché costruirsi una meschina carriera, come
hanno fatto molti sessantenni e settantenni di oggi, bisognava accettare il
fatto che un’idea così assoluta di poesia si concretizza solo a sprazzi: bisognava,
insomma, avere l’onestà di dichiarare spesso fallimento. E’ questa onestà che
ha salvato Giorgio Manacorda, feroce stroncatore dei suoi colleghi e di
un’intera “generazione perduta”, ma anche severo punitore di se stesso, pronto
a buttare raccolte costate anni di fatica per tenere appena un verso. Se in
un’epoca di naiveté e di pavidità intellettuale imperante è rimasta viva la
figura del poeta-critico, lo si deve soprattutto a lui.
Articolo uscito sul Foglio il 16 marzo 2013
Ri-pubblicato sul blog UnPopperUno - il blog di Guido Vitiello