mercoledì 31 dicembre 2014

DON CHISCIOTTE

A pelle non vestirei questa latta
Se non per onesta causa errando.
Non mi adonta la mala stella - solo
Rincresce dello scudiero il ghigno
per il mio culo strappato di sella.

Dalla polvere scuoterò le braccia
E seminandole di buona agricoltura
Di nuovo aspetterò la fioritura
Di me improvviso
Dove si fa ventre la prospettiva.

da: Formicaio barocco - 2004


martedì 16 dicembre 2014

CONVERSAZIONE

Sta lasciandosi il giorno alla sera
– disse il padre. Sento il profumo dei gelsi
e c’è abbondanza qui
e una quiete per il sonno
domestica.
Non è notte – rispose il figlio –
e il digiuno non fiacca le mie gambe.
Dietro il colle stanno grappoli d’oro
e un desiderio ci scoprirà
indomito.

da: Vocianti - 2010





venerdì 12 dicembre 2014

L'ANGOLO

Nelle giornate trasparenti
lo si vede distintamente – l’angolo.
Anche da lontano si riconoscono
le sagome scalene di quelli che svoltano.

Oggi c’è foschia: appena s’intravede
la nuca di chi precede.

L’angolo non è visibile.

Gli ultimi della fila
lo percepiscono solo per sentito dire.

Fischiano allegramente
guardandosi attorno
e una contentezza li pervade
d’inconsapevolezza.



da: Inconsapevoli viaggi - 2007

sabato 6 dicembre 2014

Benjamin Fondane - È a voi che parlo....


La poesia è un bisogno e non un godimento,
un atto e non un abbandono, un'affermazione di realtà.
(B. Fondane, Faux traité d'esthétique)


Benjamin Fondane (Iași14 novembre 1898 – Auschwitz2 ottobre 1944) è stato un filosofo e scrittore rumeno.
Appartenente ad un'importante famiglia di intellettuali ebrei, di origine tedesca, cambia il suo originario cognome Wechsler in quello di Fundoianu, nome del territorio di provenienza e dalla fusione dei nomi del nonno materno con quello del nonno paterno. Si trasferisce a Parigi nel 1923 ove continua la sua attività di scrittore e pensatore. Diviene amico di Šestov e si appassiona alla filosofia. Oltre al pensiero di Šestov studia l’opera dei massimi filosofi occidentali tra cui Nietzsche e Heidegger.
In seguito si impegna nella formulazione di un pensiero che fosse il superamento del razionalismo occidentale. Durante gli anni trenta, Fondane si trova al centro della vita intellettuale francese ed anche europea. Per il polemista Fondane, il pensiero si definisce come una lotta, come anche per Chestov, che reputava che la filosofia non fosse conoscenza ma una lotta accanita contro la morte per la libertà. È in questo spirito che egli suscita un dibattito nel 1936 sull'interpretazione di Kierkegaard in Francia. Egli punta più in particolare a Denis de Rougemont, a Rachel Bespaloff, così come a Jean Wahl.
Nel marzo del 1944 viene arrestato dalla polizia di Vichy; i suoi amici riescono a ottenere la sua liberazione, ma Fondane non vuole abbandonare sua sorella Line. Viene allora deportato dapprima al campo di Drancy, poi ad Auschwitz il 30 marzo.
fonte: Wikipedia® 

giovedì 20 novembre 2014

IL TESTAMENTO DI ICARO



                                                 Caelum ipsum petimus stultitia
                                                                 (Orazio – Odi 3, 38)


In ogni angolo cercasti o padre
Un foro che ci aprisse alla libertà
E quando la rinuncia ti fu accanto
Alzasti il capo come a ragionare.

Dal memoriale della natura
Ti sovvenne allora una pagina
E di piume e di cera facesti appendici
Alle nostre scapole.

Sospesi nel dominio degli uccelli
Mi dicesti: – Al sole troppo non t’accostare!
Le tue ali colerebbero come candele al buio.
Non verrà altra vita ad assolverti.

Inebriato da quella vigna di luce
Scordai padre le tue consegne
E degli abissi fui giovane arredo.
Non venne altra vita ad assolvermi.


da: Formicaio barocco - 2004







domenica 9 novembre 2014

NON SPIATE I POETI

non spiate i poeti ficcando
l’occhio nel buco della serratura. scrutare
se dalle loro pupille spuntano versi
appollaiati sulla colonna delle illuminazioni:

potreste vederli ridere
seduti su una ferita aperta maledicendo a un foglio
nudi con una cravatta gialla.

leggeteli – se vi è possibile –
come rami d’albero
che le foglie al chiamo
trattengono dell’autunno
sotto la corteccia.


(Inedito)

giovedì 6 novembre 2014

I VECCHI DI SAN CANDITO

Su un circolo di sedie
Stanno come solo possono
I libri chiusi.

Lì sono.


da: Formicaio barocco - 2004





domenica 2 novembre 2014

DE PROFUNDIS

O moltitudine sommersa
Abitatori di pi greco
Deposta l'umana sembianza
Concime divenite d'orto
Mèmori delle nostre bocche.


da: Formicaio barocco - 2004

sabato 1 novembre 2014

IL SEGRETO RUMORE

                                              a Miguel Hernàndez


Di noi poeti di città
accademici delle filosofie socratiche
intellettuali da salotto
che ci cingiamo dell’antico lauro
la fronte asciutta.

Di noi biografi dei sentimenti
accorti delle gesta di natura
seduti alle calde scrivanie di mogano
con le dita picchiettando
sulla tastiera del PC.

Chi di noi conosce
– poggiato l’orecchio –
il rumore del latte
che giunge alle mammelle
delle capre dormienti?

Quel segreto rumore
che solo i poeti caprai
nascondono al silenzio.




da: Inconsapevoli viaggi, in Il venditore di suoni tattili - 2007

mercoledì 29 ottobre 2014

ALL'OMBRA DEL SICOMORO

                                                 Allora per vederlo corse avanti
                                                 e salì sopra un sicomoro[…]
                                                                (Lc 19;4)


D’inutile ti travagli lassù in cima – Zaccheo.

Dov'è la macchia... la falla che ci vizia?
Dobbiamo – entro queste mura d'anni – osservanza
alla legge – ricordi?

Sì – conosciamo la cantilena
della fatica – dicono – nella terra.
Della schiena mille e mille volte piegata.
Ma è un canovaccio
che replica dalla notte dei tempi.

Dici il vero. Nascostamente accade
d’esigere con l’inganno. Una manciata di sicli – tu sai –
per le vesti che ci addobbano. Per le terme.
Per il servo e per il malaugurio
– noi con lo scrigno fra le mani
d’estate come d’inverno.

Non sprecare il tuo giorno.
È un fantasticante colui che aspetti
un imbonitore di pezzenti.
Il tempo cancellerà le sue parole.

Ti confondi con gli uccelli lassù in cima – Zaccheo.




da: Inconsapevoli viaggi, in Il venditore di suoni tattili - 2007

giovedì 9 ottobre 2014

NOTTURNO

battono le ore
sulla grancassa del torace

il sonno è un abbandono
affetto da troppo avvenire.

con una lama di luce
è l’alba del giorno prima
a toccarci la spalla.


(Inedito)


martedì 29 luglio 2014

Pasolini: per un nuovo umanesimo



Entretien avec Giuseppe Zigaina, réalisé par Angela Biancofiore
Euromedia/Université de Montpellier III
Un itinéraire à travers la jeunesse frioulane de Pasolini, ses peintures, son cinéma et sa poésie

martedì 20 maggio 2014

La primavera egiziana del 2011, poesia e rivoluzione

http://www.edizioniensemble.it/
La poesia ha sempre svolto un ruolo di grande importanza nel mondo arabo.
Il saggio di Husayn Mahmud, studioso di letteratura comparata e professore ordinario di letteratura italiana presso la Misr University for Science and Technology a Città del 6 ottobre (Egitto), analizza e approfondisce il ruolo della poesia all’interno dei recenti avvenimenti che hanno sconvolto il mondo arabo, con un occhio sempre rivolto a quello che sarà il futuro della rivoluzione e dell’impegno poetico.


giovedì 8 maggio 2014

Poesia italiana oggi, una diagnosi

Benny Nonasky
di Benny Nonasky





(Benny Nonasky) – “Leggere poesia la emoziona meno di un tempo?

Dipende dalla poesia. Se si tratta di poesia araba, la mia risposta è sì. Mi tocca e mi sorprende meno di un tempo. Sono diventato più esigente, e la poesia araba ha perso la capacità di stupire. Si è un po’ standardizzata. Quando però leggo certi poeti stranieri, soprattutto della prima metà del Novecento, mi sento sempre aperto: questa poesia è ancora capace di meravigliarmi e commuovermi. Ho l’impressione che gli arabi si stiano dirigendo in un luogo che gli altri hanno abbandonato da oltre un secolo”.

Questo testo è ripreso dal libro-intervista “Oltre l’ultimo cielo”, dell’ormai scomparsa casa editrice Epoché, del grande poeta palestinese Mahmud Darwish. Ora trasformate la parola “araba” in “italiana” e scoprirete che, più o meno, è il resoconto della nostra situazione poetica in questo periodo di conclamata vanità letteraria e depressione internautica.


Non ci sono scuse: il dramma è scolpito nei nuovi centri della cultura (Facebook) e nei sofismi dei più furbi (Riviste, Case editrici, Amicidegliamici). Nel primo caso troviamo un’improvvisa e folta popolazione di giovani, maturi e anziani uomini che per millenni si sono nascosti agl’occhi del mondo e che improvvisamente, entrando in quelle comunità di ubriachi cazzi nostri ovunque, hanno trovato l’eldorado: finalmente possono postare al popolo di internet la loro poesia o pubblicizzare il loro libro pagato a rate – “perché ho acquistato (da contratto; obbligatoriamente) delle copie del mio libro”. In poche parole, hai venduto la tua arte oggi per riacquistartela domani. Quindi la poesia è diventata un mercato nero dove tutti possono acquistare, gratuitamente nel maggior dei casi, delle opere o vendere, o donare, le proprie; senza regole e senza merito.

Nel secondo caso, troviamo invece quei misteriosi posti dove, invece, si deposita il nuovo potente sistema, chiuso a chiave, dove si annidano i vecchi professori e i nuovi astri nascenti. I luoghi possono essere una Einaudi, una Lietocolle, una Mondadori, una Marcos y Marcos o una Crocetti Edizioni. I vecchi possono essere un Buffoni, un Testa, un Cucchi, una Gualtieri, un Piersanti, un Magrelli, un Risi, un Vitale. E questo è il primo punto. Poi ci sono altri luoghi. Come la rivista “Poesia” o la rivista “Le parole e le cose” o “Poeti e Poesia” o “Atelier”. E qui dentro, oltre ai vecchi, che sono ovunque e senza fissa dimora, troviamo gl’astri nascenti: Matteo FantuzziMaria BorioCarlo CarabbaRoberto CesconTommaso Di DioDavide Nota. Questi ed altri sono coloro che credono o che vengono definiti “i più importanti e giovani poeti della poesia contemporanea italiana”.
E non mi sto inventando nulla: lo si legge tranquillamente in giro.


Ma visto che ci troviamo in un paese dove i concorsi non valgono nulla (e vengono vinti da parenti o vicini di casa), dove le pubblicazioni sono a maggioranza a pagamento e hanno un peso medio di tre mesi in uno scaffale remoto, o in basso, di tutte le librerie; dove le manifestazioni e i festival letterari sono un ritrovo di quattro amici al bar e un matrimonio festante in una chiesa lì vicino; dove, rasentando la terra, i gusti sono gusti; e se nessun recensore è degno di nota e di rilevanza a meno che non sia un amico o un guadagno da quattro o cinque soldi (le recensioni sono sempre e tutte bellissime): chi fu colui che impresse nel gergo comune tale medaglia di merito a così giovani e belli figlioli – ormai già ricurvi dal vecchio?

L’ERA DEL CAOS. (Sbocciano dal nulla, seminati e coltivati da un contadino anziano. Siamo nell’era del caos. Tutto è possibile. Tutti sono re e regina in un regno autogestito, autogovernato, autolodato.)

Spingiamoci nelle fondamenta. La scuola. Qui si formano le menti e le prime passioni. Qui si creano le primarie emozioni verso o contro la lettura e la scrittura. Ma c’è una nota stonata nella struttura con la quale si crescono tali cose. Cominciamo a dire che secondo le ultime statistiche Istat (2013) sulla lettura in Italia i giovani lettori tra i 14 e 17 anni sono il 39,4 percento, mentre quelli dai 18 fino ai 65 sono sotto la quota del 50. Queste persone hanno letto almeno un libro nell’arco di un anno al di fuori dei testi scolastici o lavorativi. Una miseria. Che riconduco, anche per esperienza personale, alla scarsa attenzione derivante dal piano di studi che annualmente spinge alla noia milioni di giovani ragazzi a invaghire in un passato troppo remoto e, in parte, già conosciuto per film, fiction e documentari presenti ovunque, ogni dì.

I giovani studenti si trovano alle prese con mesi di Petrarca, tre anni di Dante, due di Manzoni, un anno del famoso trio Montale-Ungaretti-Quasimodo. Per non parlare di Storia, ferma al 1945. Come se il mondo fosse finito quel giorno. Bensì è il contrario. La nostra vita è partita dopo quel giorno. Con Fellini, poi gl’anni di piombo, la DC e il PCI, il Vietnam, la Guerra Fredda, il Crollo del muro di Berlino. E la guerra della Russia in Afghanistan, quella del golfo. Berlusconi e Prodi e D’Alema. Il presente che è la storia degl’ultimi vent’anni. E questo vale per la letteratura: CalvinoPasoliniGattoNeruda, Lorca, SzymborskaOrwellCamusCarverOzSaramago.

Faccio solo degli esempi, per dire che un giovane se spinto verso la sua storia troverà più interesse verso un campo che è stato svuotato dalla povertà di un Moccia o un Volo o un Gramellini. Perché se questo è il livello sul quale si basa la grandezza e il mercato del nostro paese, vuol dire che la scuola sta sotto sviluppando i suoi allievi e il loro futuro.

E questo non è solo colpa degl’insegnanti o della politica. Ma viene anche dagl’autori di libri che negl’ultimi cinquant’anni hanno disabilitato ogni impulso di ribellione e di coscienza collettiva, divenendo narcisisti, biografici, invidiosi; indifferenti e disinteressati del lettore e della società che dovrebbero rappresentare e interpretare.


LA POESIA CI SALVERÀ. (Sono i poeti ad ucciderla.)
Leggere Pasolini al parco fa schifo. L’ho pensato mentre lo facevo. Ho dovuto richiudere “Le ceneri di Gramsci” e perdermi in un albero che era un anfratto stempiato tra decine di olmi in primavera.

Pasolini fu quel che fu, come l’ideologia sparsa nelle sue poesie. Più attuali quelle dialettali dove il quotidiano esprime un malessere e un’ipocrisia tutt’ora presenti – lavoro precario e sottosviluppato, borgate putride, tabù sessuale – e dove la lingua si fa più snella e ritmica.

Perché la poetica di Pasolini è dura e ricca di ridondanti pensieri a passeggio per Roma o per le vie d’Italia. È un qualcosa di descrittivo all’ennesima potenza. È un netto taglio tra la poesia ornamentale e simbolica di Montale e quella sentimentale e patriottica di Majakovskij. Per il 1950 e dopo, è un qualcosa di diverso perché è politico e detto con parole comuni, senza paura e senza violenza di gergo (ed è proprio questo linguaggio alto a rendere, spesso, la poesia un po’ troppo secca di pathos e monotona).

Ci voleva una svolta, lui ne è stata una.
Peccato che con lui si sia incarnata l’intera storia poetica che giunge fino ad oggi.

Molti poeti contemporanei tendono a nominarlo per ogni cosa venga detta o fatta nella poesia odierna, come se fosse una scusante o l’unica soluzione possibile. E, mio malgrado, questo vale anche per il signor Montale. Sicuramente un incredibile poeta, fino ad “Ossi di seppia”. Poi è una ripetizione, sempre più striminzita, di quell’ermetismo che si è fatto incendio e che mai ha smesso di bruciare. Come per Berardinelli: “dopo Montale non c’è nessun altro poeta”. Quindi il capitolo è chiuso. Ma non è né può essere così.


Uomo di grande intelletto e di grande forza espressiva fu Ungaretti (forse l’unico, nel trio con Quasimodo e Montale, che meritava il Nobel). Poeta di grande trasporto sociale e meditativo fu Costabile. Giudici lo fu per i primi due libri, “La vita in versi” e “Autobiologia”. Poi divenne ripetizione. Come accadde per CaproniLuziPennaSabaCalogeroBertolucci.

Il problema, che ci attanaglia tutt’oggi, è la lirica e le sue costrizioni metriche e sillabiche. E anche se i temi sono cambiati, permane il desiderio di incatenarci in un Pascoli o in un D’Annunzio, come se rievocare sempre gli stessi matusalemme come principi da cui alimentarsi (per diventare loro) fosse la sola possibilità per fare buona poesia.

Mi fermo a leggere dei nuovi futuristi, della chiusura ermetica di una Biagini o le finte-pop-nerudiane della Calandrone o intime e diaristiche della Gualtieri. Mi fermo a comprendere lo scarso umorismo di un Krumm e le poesie tecno-scientifiche di Sanguineti. Mi fermo ad ascoltare le rimelle della Cavalli (sempre meglio di Piersanti o di Marcoaldi – tremendo) o le montaliane e lamentose di Cappello o quelle lacrimose in vecchiaia di Giampiero Neri. Mi fermo a scoprire giovani autori che sanno di poco o nulla perché hanno letto poco o nulla (e quello che hanno letto è qualcosa sparso su internet o in qualche inutile antologia che non dice niente del lavoro di un poeta – tranne quello che di lui si vuole dire).


Cercando il vuoto siderale in un io depresso e sterile (come la coppia Cucchi-Merini), i nuovi autori si sono rannicchiati sui propri smartphone a vagheggiare in un tetro infinito – di cui Leopardi detiene ancora il monopolio (anche se Santi ha fatto un buon lavoro con il suo “Mappe del genere umano”) – che si inebria in festival e coppe e targhe fatte di quella medesima pasta nera.

In Italia ci sono oltre 1800 concorsi letterari all’anno. I due terzi di questi sono a pagamento, spesso per motivi non dichiarati nel bando. Molti di questi bandi sono fatti a solo scopo di lucro e da case editrici. Capita che la giuria sia sconosciuta fino alla giorno della premiazione. Inoltre, succede che spesso, coloro che bandiscono un premio gratuitamente, successivamente richiedano un contributo per entrare nell’antologia del concorso (dove ci finiscono tutti i partecipanti). Può avvenire che questa richiesta avvenga prima del risultato finale, e questo – si comprenderà facilmente – comporterà un giudizio positivo o negativo per la giuria.

Ora, per spiegare meglio queste cose, farò due esempi che mi sono realmente accaduti.
Tempo fa ebbi una menzione d’onore nel concorso “Premio Wilde” di Bergamo. Dopo aver pagato il biglietto del treno per raggiungere la città (perché difficilmente il concorso include, almeno, un rimborso per il vitto e il trasporto), mi sono ritrovato ad assistere ad una scena surreale e che mi ha spinto ad andarmene urgentemente: uno dei giurati era qualcuno del consiglio comunale che una volta presa la parola disse: “Sono felice di aver fatto parte della giuria anche se, prima d’ora, non avevo letto mai una poesia”.


Pochi mesi fa, invece, sono stato contattato dalla presidentessa di un concorso siciliano che mi comunicava di essere il vincitore. Era gratuito e il primo premio era composto da un assegno di 100€ ed un attestato. Però, dopo aver esternato la mia impossibilità ad essere presente il giorno della premiazione, mi è stato comunicato che non avrei ricevuto nulla se non mi fossi presentato. Non andava bene neppure una delega. Quindi fui scartato.

Questi due esempi confermano la ridicola struttura di questo sistema. Tutto funziona sul “paga e vinci” e sulla mediocrità. Certo non tutti i premi sono uguali. Ma il novantacinque percento di essi, con un giro d’affari che supera gli 11 milioni di euro, per esperienza lavorativa e di crescita e curricula non valgono nulla.


LA POESIA CONTEMPORANEA È DECADENTE. (La poesia contemporanea è un Io morboso, diaristico, privo di un linguaggio ricercato, assente di passione e sentimentalismo civile, umano; banalizzato dai media e da un disfattismo culturale imbrogliato nell’auto pubblicazione vanitosa; decadente; Pound quando lesse la prima stesura de “La terra desolata” di Eliot gli disse di buttarla: lui lo fece e scrisse quel che scrisse poi.)

Do parola ad Edoardo Zuccato: “Oggi la situazione è molto diversa, aperta senza inibizioni ai modi di scrittura più diversi. Non si può negare, tuttavia, che l’ideologia di quel passato recente sia dura da smaltire, non solo per il fatto che i ‘maestri’ di allora hanno provveduto e provvedono a riempire di loro seguaci gli ambienti editoriali e letterari. Il modo migliore per sfuggirvi, comunque, resta quello di varcare i confini nazionali, studiando le lingue straniere e scoprendo che i dogmi della nostra tradizione recente semplicemente non esistono. In Inghilterra e in Polonia, in Irlanda e in Scandinavia, in Nord America e nei Caraibi si sono scritte e si scrivono poesie di generi che in Italia erano stati dichiarati impossibili e fuori tempo.

C’è una sola cosa sicura: che la poesia valida, destinata a durare nel tempo, dipende dall’importanza di quello che viene detto e dall’efficacia con cui viene detto, efficacia che è data dall’esattezza sommata alla forza dell’espressione. L’esattezza dipende dalla padronanza dell’arte poetica, cioè della lingua e della tecnica, che si può imparare con la lettura e l’esercizio, mentre la forza è frutto della passione, che non si può imparare o fingere. Come il coraggio di Don Abbondio, la passione, cioè la motivazione profonda, uno non può darsela. È questa la ragione per cui molti poeti, ieri come oggi, invecchiano male”.

La poesia straniera è un forte campo di esperimenti linguistici. Lo si può vedere con la poesia araba strutturata su un canto biblico e una destrutturazione estetica della parola (questo vale anche per i poeti nordafricani, tranne che per l’Egitto ancora racchiuso in una poesia tradizionale che da poco si sta affacciando su quella slabbrata del rap e dello slam; un po’ come avviene anche in Iran).

Lo si può constatare con la poesia saggistica di Ulf Stolterfoht o con la poesia come linguaggio corporale della Draesner. Lo si può dire per la poesia-gioco-canzonata-metropolitana di Paul Muldoon. Possiamo apostrofarlo con la poesia metafisica di Mark Strand o quella sarcasticamente filosofica e quotidiana di Billy Collins.

Ma potrei citare Federico Garcia LorcaPablo Neruda, Wislawa Szymborska, Lawrence Ferlinghetti, Jack HirschmanGeoffrey HillDerek WalcottLes Murray, Mahmud Darwish,Charles SimicBei DaoRobin RobertsonAdonisAbbas Baydoun, tra gli over sessanta (o già defunti). Al di sotto troviamo Olga OrozcoMariano Peyrov, Islam Samhan, Liu XiaoboCarmenYanezOlvido Garcia ValdesNathalie Quintane, Pierre AlferiSteffen Popp.


La poesia straniera non si nasconde sotto l’ombrello malconcio del passato, anzi cerca di evadere dagli schemi preconcetti e viziati dal mainstream culturale. Dal tema civile fino a quello astratto, ognuno percorre una strada verso luoghi già scoperti, ma ancora da esplorare. Perché la parola non ha mai fine.

(Ho letto dei buoni libri che vi consiglio: “Stelle variabili” di Vittorio Sereni, “Elogie del terrore” di Mario Lucrezio Reali, “Mappe del genere umano” di Flavio Santi, “Concessione all’inverno” di Fabio Pusterla, “Le stelle chiare di queste notti” di Ferruccio Brugnaro, “Croce del Sud” di Andrea Garbin, “Dodici” di Francesco Teriaca.)

Fine.

SE PARLO È PERCHÉ… Questo articolo nasce come risposta al commento di Matteo Marchesini uscito sul Foglio il 16 marzo dell’anno scorso col titolo “Quel che resta della poesia”. È scaturito dalla necessità di aggiungere dei punti che, per me, sono importanti per poter definire quella frase così perentoria che il titolo esprimeva. Matteo Marchesini fa un’ottima ricognizione della poesia moderna, affermando cose che anch’io condivido e che ho sentito dire a bassa voce a molti altri. Però, forse perché ha la stessa età dei suoi compagni, ha tralasciato i poeti contemporanei – i cui nomi, alcuni certo, li ho all’inizio citati. Inoltre, come sempre accade, si sofferma unicamente sulla poesia italiana senza affiorare a quella internazionale, anche solo europea. Come se la poesia fosse solo una questione nazionale senza influenze esterne o possibilità d’uscita, un po’ come accadde nella prima metà del secolo scorso.

Nella prima parte del suo articolo, a un certo punto, dice: “In un paese in cui tutti scrivono poesie e nessuno le legge, riuscire a farsi chiamare poeti sembra troppo facile, cioè irrilevante. La causa e insieme l’effetto di questa situazione è la progressiva perdita di distinguere i poeti veri”. È un’affermazione sacrosanta, ma lasciata morire lì perché l’articolo non genera soluzione né pretende di cercarne. In effetti, il testo si evolve in uno sguardo critico sulla critica e sull’interpretazione di poeti che, effettivamente, “ignorano la contemporanea poesia italiana” e “la conseguenza è che i poeti veri vivono una condizione frustante di mancato riconoscimento”.

Ed ecco perché questo mio commento. Perché non voglio dire per poi scomparire. Se parlo è perché ho letto e non mi è piaciuto ciò che ho letto. Questo vale anche contro di me e la mia poesia. Di certo ci sono molte cose da dire e da sistemare. Più di oggi che di ieri. Un sistema marcio e ridicolo che sta completamente allontanando tutti da tutti. Annoiando. Nel silenzio più acuto, dove tutto si fa e si disfa.

Infine, leggendo quest’articolo e guardandomi in giro, ho compreso che la maggior parte dei poeti contemporanei si interessa troppo della questione critica di tutto il perimetro poetico nazionale, ma così tanto da distaccarsi dalla propria scrittura poetica, diventando così non più poeti ma critici cinici sempre pronti a dire l’ultima parola su ogni cosa che accade nella poesia nostrana.

Per fare qualche esempio: Davide Nota si conosce più per i suoi articoli o per le recensioni o per il suo sito Poesia 2.0 che per la sua poesia. Così vale anche per Marchesini o Antonio Bux. I nomi di Matteo Fantuzzi o della Bono rimandano a persone che si interessano di poesia (scrivendone su riviste o travestendosi da giudici per qualche concorso letterario) e non di persone che scrivono poesie.

Molti di loro rientreranno in qualche antologia come quella anniversaria della casa editrice Marcos Y Marcos creata e gestita da Buffoni, che solo pochi acquisteranno e pochissimi leggeranno (forse solo coloro che si interessano di poesia). In definitiva, il loro impegno si rivolge verso la poesia e non con la poesia. Neppure entrambe le cose insieme.

Accade da sempre. E questo è il male più grande.


(Apparso l'8 maggio 2014 su Storie, Rivista internazionale di cultura)

domenica 13 aprile 2014

A IDA

A dorso di asino come a un cristo
il tuo peso s’è fatto celeste.
Non ti trattiene più la gravità
degli sguardi obliqui.
Fai capriole in un prato pulito
come quella bambina che non vedemmo.

13 aprile 2014



© Giovanni Abbate - Inedito

venerdì 11 aprile 2014

Jorge Luis Borges, ¿Qué es la poesía?



Tra il giugno e l’agosto del 1977, Jorge Luis Borges tenne sette conferenze nel Teatro Coliseo di Buenos Aires. I temi furono: La Divina Comedia, La pesadilla, El libro de las mil y una noches, El budismo, ¿Qué es la poesía?, La cábala, y La ceguera, más tarde recogidas en su libro Siete Noches.


sabato 5 aprile 2014

QUESTA NON E' UNA POESIA

Questa non è una poesia
è il mistero che scandisce la partitura
l’albeggiare di una voce
la nave che veleggia all’orizzonte.

                  Quando la pioggia lambisce il muro
                  è l’acqua che allevia la crepa
                  lo scheletro abbandonato dalla carne
                  la battaglia che si fa muschio.

Questa non è una poesia
è la testimonianza del suo contrario
la forma circolare della colpa
la proiezione dell’ultima speranza.

                  Per i tuoi sogni dimenticati
                  è quel che stai cercando – lettore.
                  Avrai braccia più lunghe
                  tirandoli su dal tuo ritratto.





da: Vocianti - 2010

mercoledì 2 aprile 2014

Quel che resta della poesia. Di Matteo Marchesini

Un interessante e puntuale articolo di M. Marchesini, che condivido in ogni sua parola.


C’è un racconto di Martin Amis in cui si immagina che le sorti degli sceneggiatori e dei poeti siano esattamente rovesciate rispetto a quelle reali. Gli sceneggiatori si muovono in un malsano sottosuolo letterario, arrabattandosi tra reading, riviste semiclandestine e opere pubblicate alla macchia. I poeti, invece, lanciano le loro composizioni come fossero film. Contesi da grandi produttori, guadagnano cifre enormi tra “diritti secondari” e “royalties sui sequel”. Girano in limousine, scelgono i gadget con cui promuovere una ballata, registrano l’incasso clamoroso di sonetti intitolati “E’ l’alto suo disdegno di iersera”, e decidono la cesura di un verso con un agguerrito team aziendale. Il racconto di Amis suona beffardo soprattutto a orecchie italiane, dato che da noi, intorno alla poesia, non si riunisce nemmeno quel pubblico di lettori limitato ma vivace che caratterizza il meno asfittico mondo letterario anglosassone. In Italia, ormai, dei poeti si parla con imbarazzo. Oggi il poeta italiano non solo è emarginato, ma non è neanche considerato uno scrittore (dei narratori che compongono versi si dice: “scrittore e poeta”, identificando la narrativa con la scrittura tout court).

In un paese in cui tutti scrivono poesie e nessuno le legge, riuscire a farsi chiamare poeti sembra troppo facile, cioè irrilevante. La causa e insieme l’effetto di questa situazione è la progressiva perdita della capacità di distinguere i poeti veri. Non a caso, anche tra gli studiosi di letteratura si è creata una divisione dei ruoli netta quanto aberrante. Da un lato c’è il critico di narrativa, non di rado un uomo di mondo che ama legare la sua firma ai libri di cui “tutti” parlano, e dunque diffida della lirica, che del resto non si presta alle sue analisi contenutistiche e poco sensibili alla forma. Dall’altro lato c’è il critico di poesia, non di rado un critico semifallito, impegnato a difendere il suo minimo orticello con discorsi che, a chi guardi da fuori quell’“atomo opaco” che è il mondo dei poeti, non possono non sembrare bizzarri e futili come lo sono quelli degli iniziati a qualche hobby astruso – come i gerghi di certi collezionisti, dei somelier o dei maniaci di giochi di ruolo. I due tipi di critici finiscono per credere che possa esistere una letteratura sana fatta di compartimenti stagni. E certo è vero che oggi la prosa italiana è composta da narratori o saggisti che ignorano la contemporanea poesia italiana: ma si tratta, appunto, di una circostanza patologica, che impoverisce sia i prosatori che i poeti.

In generale, la poesia non è più considerata un elemento indispensabile per capire la nostra cultura. La conseguenza è che i poeti veri vivono una condizione frustrante di mancato riconoscimento. Siccome latita un’attendibile polizia antisofisticazione che separi i loro prodotti da quelli degli impostori, si trovano di continuo svalutati: la moneta cattiva scaccia quella buona. Inoltre, poiché le collane dei pochi editori ben distribuiti vengono ormai gestite con criteri di pessimo gusto – spesso sulla base di meri rapporti d’amicizia e di potere – chi non può rivendicare posizioni di forza, difficilmente arriva in libreria. D’altra parte, la visibilità non è più proporzionale alla qualità: oggi il catalogo di Einaudi e Mondadori non vale molto più del catalogo di uno qualunque di quei piccolissimi stampatori che hanno nomi improbabili tipo “L’orcio” o “Selva oscura”.

Così, capita di essere riconosciuti poeti per le ragioni sbagliate, e spesso senza merito. Per esempio – e qui la patologia italiana è ingigantita dalla mediatizzazione – si è considerati poeti a causa delle proprie vicende biografiche: come Alda Merini, della cui produzione si può dimenticare un buon novanta per cento senza danno. In presenza di un minore appeal esistenziale, aiuta la longevità, o l’accurata gestione di una fama acquisita quando esisteva ancora una parvenza di dibattito critico, o magari l’insistenza su certi stilemi immediatamente riconoscibili. Meglio poi se questa accurata gestione e questa insistenza manieristica si appoggiano a un potere editoriale (dal caso nobile di Sereni si è passati a Maurizio Cucchi e Antonio Riccardi), a un più generale potere “organizzativo” (vedi Davide Rondoni) e magari universitario (si pensi a Franco Buffoni): ma qui si torna dalla poesia all’estrinseco dato biografico, di una biografia pubblica anziché esistenziale.

Se si eccettuano questi casi, è assai scarsa la disponibilità all’ascolto di una società letteraria che, come la società tutta, tende a rispettare solo ciò che ha un immediato riscontro mediatico. La poesia, in questo senso, non vale a formarsi un’identità. Semmai può essere la ciliegina sulla torta, dove la sostanza della torta sta in una “carriera” basata su altre specialità – una carriera da romanzieri, da filosofi, da cantanti o da politici (e si aggiunga pure qualunque altro “mestiere” noto e magari pittoresco). L’importante, insomma, è che il poeta non sia solo poeta, ma semmai “anche poeta…”: come dice, sputando, la signorina Silvani, mentre Fantozzi le recita versi di Lorenzo de’ Medici spacciati per “una mia cosettina giovanile”.

D’altronde, la sufficienza è più che motivata, davanti ai tanti pseudopoeti che scelgono questo genere, in sé difficile, solo perché manca una vera vigilanza sulla qualità dei prodotti, e quindi perché li deresponsabilizza. A chi non vuole cimentarsi con le fatiche della forma, la “poesia” offre oggi un triste ma accogliente rifugio, un ambiente di rassicurante anarchia. Quella lirica moderna che un tempo servì a esprimere il disagio dell’io di fronte alla società borghese, nella nostra società compiutamente massificata diventa il mezzo più facile per esprimere una pseudocreatività quanto mai piccolo-borghese. Come ci sono i pittori della domenica che rifanno Picasso o gli informali (viene spontaneo, per la dose di arbitrarietà e impostura, il paragone con l’arte: solo che qui manca la spietatezza del mercato) così abbondano i versificatori che imitano a costo zero le oltranze della poesia otto-novecentesca.

Questa mutazione genetica dei poeti italiani è iniziata dopo la generazione dei nati negli anni Trenta. Di solito in questa generazione – si pensi ai Raboni, ai Sanguineti – i poeti erano ancora intellettuali a tuttotondo. Ma a partire dai nati negli anni Quaranta, lo scenario è cambiato. Superando le inibizioni dovute alle neoavanguardie prima, e poi al rifiuto della letteratura che si respirava nel clima sessantottino, gli autori della generazione di Dario Bellezza hanno proposto una lirica molto meno sorvegliata. Negli anni Settanta, la poesia è rinata come “confessione” o eclettica euforia linguistica, come esibizione individualistica o scoria postavanguardista stilisticamente depotenziata. Era una lirica informe, naturalmente postmoderna, nata da una situazione che anche Pasolini e Montale contribuirono a definire col non-stile dei loro ultimi libri, e che fu ben fotografata nel ’75 dall’antologia “Il pubblico della poesia”, in cui i trentenni Berardinelli e Cordelli inserirono i loro coetanei. Pare che leggendo l’antologia, e le autopresentazioni dei poeti, Fortini abbia detto che questi nuovi letterati gli sembravano un po’ simili ai pittori, ormai incapaci di dar ragione della loro opera e di inserirla in un orizzonte culturale. Come ha notato Berardinelli, già a questa altezza è diminuita la coscienza critica: si è imposta una nuova naiveté, una creatività sregolata e autoreferenziale.

Da allora molte cose sono cambiate. Ma l’autoreferenzialità non ha fatto che aumentare, e la coscienza critica non ha fatto che diminuire. All’anarchia post-’68 hanno messo fine una serie di piccoli “colpi di stato”, con cui gli autori più abili a promuoversi sono riusciti a ottenere una canonizzazione puramente editoriale. Intanto è dilagato il bovarismo: che presto, esauritasi l’atmosfera “confessionale”, ha trovato di nuovo espressione nella koinè genericamente ermetica e nel tenue cronachismo lirico che da molti decenni egemonizzano il nostro poetese colto. Molti autori, dopo gli esordi informali e sub-letterari, si sono messi a fare i formalisti, gli iperletterari, gli esoterici. Ma i presupposti, come ha notato Mengaldo, “restano quelli di una poeticità privatistica ed effusiva”.

E’ in questa situazione che la poesia italiana si è svalutata. La “poeticità privatistica” e l’autoreferenzialità gergale hanno reso i suoi contorni sempre più opachi. La nuova lirica non era più memorabile, come quella della prima metà del Novecento; ma non aveva alle spalle nemmeno le impalcature ideologiche che identificavano i non memorabili esperimenti neoavanguardistici. Rischiava, insomma, di essere irriconoscibile. A questo rischio, molti autori hanno ovviato producendo oggetti estremamente stilizzati, muniti di un involucro esterno in grado di renderli subito percepibili come “Poesia”. Anziché comporre poesie vere, cioè organismi complessi e resistenti alle riletture, si sono limitati a proporre un’Idea astratta di poesia – a inventare un’etichetta che dovrebbe garantire da sola, al lettore distratto, di trovarsi nel magico mondo della Lirica. Coi resti delle poetiche novecentesche, questi autori si sono costruiti ognuno una maschera, per recitare sempre lo stesso ruolo nella commedia dell’arte letteraria. Spesso, senza averne la statura, hanno imitato in questo Pasolini, che, come diceva perfidamente Raboni, è stato poeta in tutto fuorché nelle sue poesie: hanno cioè surrogato la rigorosa costruzione dei testi con atteggiamenti, con pose, o con una patina decorativa e “poetizzante” stesa su versi di per sé assai sciatti. L’aura perduta del testo è stata insomma sostituita dal mito dell’Autore, o dall’insistenza su qualche stilema che funge da logo pubblicitario. Giorgio Manacorda ha esemplificato così la situazione: “tutti oggi si mettono in posa: Bellezza faceva sul serio il maledetto (…) Zeichen fa sul serio il dandy, De Angelis fa sul serio il Poeta, Conte fa sul serio il vate, Magrelli fa sul serio il poeta-intelligente, la Lamarque fa sul serio l’ingenua, e Mussapi fa sul serio il nulla”; e D’Elia, potremmo aggiungere, con le sue sgangherate terzine fa sul serio l’éngagé pasoliniano.

Alcuni di questi autori trasformano la Poesia in un feticcio, proprio perché non credono nelle singole poesie. Anziché cercare di volta in volta la forma adeguata a un contenuto urgente, con onesta perizia tecnica e artigianale, vogliono imporre un’idea aprioristica della lirica, stilizzando e “mettendo in posa” le idee e i temi che fiutano superficialmente nell’aria. Questo vizio insieme contenutistico e formale è del resto ben radicato nelle patrie lettere. Sessant’anni fa, in “Il poeta col suo io”, Leo Longanesi ne diede una rappresentazione esilarante. In questa parabola, i passaggi dal clima carduccian-pascolian-dannunziano a quello ermetico, dalla debole rinascita di una poesia “civile” ai nuovi ripiegamenti elegiaci post-neorealisti, vengono ferocemente ridotti ai minimi, tipici termini, con una velocità da gag. Proviamo a riassumerla e a immaginarne una continuazione, proponendo qualche parodia delle mode poetiche più recenti. Ecco come inizia Longanesi: “Il poeta sentì un nodo allo stomaco, poi un alito fresco sfiorò la sua fronte, poi il suo cuore sembrò uscire dal caldo astuccio del suo petto. Era giunta l’ispirazione, finalmente! Allora prese la penna, e scrisse:

Ahi, fredda beltà, quanto mi costi!
Lento il tuo sguardo si posa sulle cose,
e squilla il geranio della tua bocca.

Poi si arrestò e inseguì vaghe immagini che andavano e venivano come folate di vento. Poi bagnò la penna nel calamaio e al sostantivo geranio aggiunse l’aggettivo rosso: ‘e squilla il rosso geranio della tua bocca’”.

Rileggendosi, però, il poeta si accorge di essere ancora invischiato nel carduccianesimo. Maledetta lingua italiana! Ma proprio l’esasperazione gli dà l’energia per compiere la sua rivoluzione lirica, per far implodere la sua levigata forma ottocentesca. Approda così all’essenziale Novecento ungarettiano o quasimodiano:

Sulla tua fredda beltà
squilla
il rosso geranio
della tua bocca.

Da qui, il gusto della scomposizione gli prende la mano. Mette le parole “in fila indiana, poi per quattro, poi per tre”. Ma mentre si perde nei suoi giochi novecentisti, l’atmosfera ermetica è sconvolta dal vento impetuoso della Storia. E come può lui continuare a cantare tra le nuvole? Quasimodo e compagni insegnano. Ecco allora che l’engagement trasforma così i versi del nostro:

Sulla tua fronte,
Stalin,
squilla
il rosso geranio
della mia bandiera.

Stavolta il poeta sente “di aver colpito una musa al cuore”: esce dalla torre d’avorio e si iscrive al PCI. Ma presto si sparge la voce che i comunisti rischiano di essere messi fuorilegge. Per fortuna, non ha ancora stampato la sua ode! Basta, basta politica. E’ ora di rifugiarsi in campagna. Cos’è più un’ideologia? Conta il rimpianto, il puro sentimento elegiaco dettato da Natura! Così il poeta torna alla vecchia metrica distesa e zoppicante:

Nella livida luce dell’Avemaria,
si spegne il suono delle tue campane,
o triste pianura di Lombardia
.

E questi versi, il poeta li ripeté più volte (…) e sentì che gli intenerivano il cuore, tanto più che in quel momento egli stava proprio camminando su un vasto prato di erba, dove pascolavano quattro mucche: e tanto il prato quanto le mucche erano di sua proprietà”.

Con questa ironica e quasi marxistica nota sull’orgoglio di casta, si chiude la parabola longanesiana. E mettendo insieme i geranii politici, e le relative bandiere, con la “livida luce” elegiaca del finale in terzine, si vede che il corrosivo Leo aveva già fiutato Pasolini. In realtà, se si modifica la geografia e si aumenta la goffaggine, quella terzina potrebbe ormai appartenere all’epigono pasoliniano D’Elia. Continuando il gioco, tentiamo allora una parodia di questo poeta, che canta le sconfitte della sinistra immergendole in un fiacco paesaggismo adriatico. Potrebbe dire il D’Elia: “Nella livida luce dei rosari/si spegne il mare sulla Romagna che trema/all’ultima voce dei funzionarii…/Ah, per chi suona la nostra campana, D’Alema?/Eravamo ginestre aggrappate all’orlo qui/del burrone tra il settantasette e il Pci…”.

Ma il caso D’Elia è abbastanza isolato. Altre sono le strade tipiche, imboccate nell’ultimo mezzo secolo dal “poeta col suo io”. Negli anni Sessanta, si è imposta la neoavanguardia di Sanguineti e sodali. Allora, forse, il camaleontico poeta di Longanesi vi avrebbe aderito, ragionando in questo modo: “basta, non è più tempo di rifugi bucolici. Ha vinto l’alienazione. Sì, lo sento: mi è sottratto qualunque rapporto naturale con le cose. Non mi resta che rispecchiare l’alienazione che provo attraverso un’alienazione scientifica del linguaggio”. Così sdottoreggiando, avrebbe trasformato i vecchi versi in un sanguinetiano pastiche citazionista. Una cosetta del genere:

Ave Maria livida Palus o luce istituzione o
istituto totalità litania nel cielo che è così bello quando è
bello cioè bellico sotto una campana campa il Kampf
che è Dein non Mein di me troppo melancolico per spargere
sangue che squilla come il geranio ammainato del comitato Central Park

Ma nel frattempo, a partire dalla lezione di certo Sereni e di certo Raboni, di Nelo Risi, Luciano Erba e Giorgio Orelli, si è formata un’altra koinè, quella “lombarda”. Per il pallido lirismo del “medio poeta italiano”, è un vero uovo di Colombo. In sostanza, replicando gli aspetti esteriori di questi autori – certo grigiore, certa arida oggettività, certo prosaico cronachismo appena innalzato da un tono di vaga elegia domestica – il poeta medio li sfrutta per legittimare la propria aridità formale, la propria povertà stilistica e la propria impotenza metaforica. Sotto le insegne lombarde, con minimo sforzo prosodico, può semplicemente elencare gli oggetti che gli sono cari, magari condendoli qua e là con qualche incongruo grumo analogico, cioè non abbandonando del tutto il cordone ombelicale che lo lega alle sublimazioni ermetiche. Ne esce una poesia insieme esile e farraginosa, che ostenta la sua natura di referto “dal vero”, ma lascia emergere qua e là un grezzo sentimentalismo. La koinè lombarda ha nutrito i versi depressi di Cucchi e Riccardi, e quelli spigolosi di Buffoni. Fiutando questa possibilità, negli ultimi decenni il poeta longanesiano si sarebbe forse detto che era l’ora di mettere en abyme la mediocrità piccolo-borghese con una poesia altrettanto mediocre e incolore. Lo immaginiamo mentre rielabora i suoi vecchi temi, così lombardeggiandoli:

C’è della gente che dice Avemaria
nella pianura con la nebbia
si vede qua e là un lago
oh lucci di nostalgia
quella domenica del ’71 tra le rive in amore
e due gerani innaffiati al balcone da una pensionata mentre
“Ehi, largo” dice da un camion un autista
ai passanti intirizziti
che nei cappotti coi faldoni si muovono
e portano al prete le raccomandazioni
e le bisbigliano coperti dalle campane.

Ma negli ultimi anni, si è diffusa una nuova koinè. Sulla solita base ermetica, qua e là mescolata a residui avanguardistici, è nata una poesia dalle pose ieratiche, insieme chirurgica e viscerale, orfica e truculenta, gridata e cadaverica. Il suo tema fondamentale è il Corpo. Certo il nostro poeta, dopo aver fiutato le filosofie francesi alla moda, e le parole-chiave dell’odierna chiacchiera semicolta, si butterebbe su questo tema con tetra voluttà, pronunciando la parola “corpo” con la stessa convinzione con cui qualche decennio fa avrebbe pronunciato la parola “popolo”. Ma a questa altezza, in genere, il poeta ha cambiato sesso, ed è diventato poetessa: sono infatti soprattutto le poetesse a indulgere alla retorica sulla corporeità. Questa retorica – con tutti i topoi del sadomasochismo che si porta dietro, con tutte le immaginabili vie crucis sessuali – può presentarsi in una forma fredda, da “autopsia linguistica”, o in una forma infiammata e misticheggiante: ma spesso le due forme si mescolano in una tonalità che vuol essere rituale, liturgica.

La poesia del Corpo rappresenta sotto una luce macabra i dettagli fisici e domestici; mescola volontaristicamente la “carne” ai filosofemi; evoca le tragedie storiche, o i drammi di cronaca vera, solo per la loro capacità di fornire immagini morbose, “estreme”, sacre e dissacranti. L’intento è quello di emulare Amelia Rosselli, ma il risultato è un kitsch che si esprime a volte in testi debordanti, e a volte invece in testi minimali, che fanno pensare a un Ungaretti riscritto da una casalinga dark. A nutrire questa koinè hanno contribuito le poesie rarefatte di Elisa Biagini e le poesie teatralizzate di Mariangela Gualtieri, i trattatelli urlati di Giovanna Frene e il poetese fluente di Maria Grazia Calandrone. Imitandole, il nostro camaleontico poeta (o poetessa) potrebbe riadattare così il suo tema d’inizio:

Ave-Maria
o Ave
Maddalena?
Immacolata o macchiata
lampo nella
carne
(nella clavicola)
che ho
scorticato come
l’animula legata come
capro immolato al
bios-potere o Eichmann
fratello o Eich-Mann affondato
sul campo
spinato sul fiore
geranio di
sangue-campana -
Campana chimera ti
chiamo
sulle tue grandi
labbra di buona
novella

Infine, ci sono i poeti che bamboleggiano. Che fanno i fanciullini, ma senza la sapienza metrica di Pascoli. Che amano tanto il cielo, i prati, i fiori, le “stradine” dei paesaggi patrii. Che tifano per i sentimenti elementari, e spesso per l’elementare sintassi e l’elementare aggettivazione. Sul confine di questa categoria troviamo il bucolico Umberto Piersanti, che però ha ancora la sostenutezza retorica di chi “porge” il distillato di un lungo lavoro: sostenutezza un po’ comica, sia perché è troppo simile al poetese in cui scrivono quasi tutti gli italiani che scombiccheranno versi, sia perché sembra annunciare una densità sapienziale che in realtà si riduce a qualche pensierino sulla fragilità della vita, inserito in un desueto acquerellismo paesaggistico. Ma il massimo rappresentante dei bamboleggianti è Claudio Damiani, che certi critici non esitano a paragonare, oltre che a Pascoli, a Orazio. Se il nostro poeta si convincesse che il carro vincente è quello di Damiani, riscriverebbe i suoi versi così bamboleggiando:

Come sono belle le campane
che fanno din don vicino ai biancospini
dietro alla stradina piccola piccola
dove andiamo tenendoci le mani.
Hai visto come sboccia il geranio
bello rosso come la tua boccuccia?
Come fa bene al nostro cuore
l’Ave Maria, che a te fa chiedere:
“Cosa vuol dire Ave? E c’è Dio papà?”.
E io ti lascio la mano e ti do
un buffetto sulle labbra
e dico vuol dire “ciao”,
fai “ciao ciao” con la mano
sì saluta Dio in questo cielo azzurro
tu che puoi ancora. 

La pseudolirica dei poeti tardo-lombardi, dei poeti (o poetesse) mistico-viscerali e dei poeti bamboleggianti, una pseudolirica ad alta stilizzazione ma a bassa coerenza tecnica e formale, ottiene il risultato opposto a quello che ogni poesia dovrebbe proporsi: anziché potenziare il senso della lingua, lo impoverisce coi suoi stereotipi; anziché fare attrito con gli altri codici linguistici e con la realtà circostante, si isola in un limbo di futile arbitrio. Per fortuna, però, accanto a questi pseudolirici ci sono ancora poeti veri. Ed è venuto il momento di fare qualche nome, o finiremo per contribuire anche noi a una completa svalutazione del genere. Pensiamo ad autori che rifiutano l’alibi della stilizzazione e che costruiscono testi densi, stratificati, di grande coerenza formale; ad autori che non si nascondono dietro un finto esoterismo, e inseguono anzi la limpidezza, ma una limpidezza complessa, mai bamboleggiante. Anziché tentare di imporre un’Idea di poesia o un Personaggio, questi autori si affidano solo al valore artigianale dei loro manufatti. Non a caso, i loro modelli li cercano spesso in poeti maturati prima della deriva dell’ultimo mezzo secolo; in poeti, cioè, in cui era ancora ben viva la concezione della lirica come abile artigianato. C’è chi, come Paolo Febbraro e Anna Maria Carpi, deve qualcosa a Caproni; e c’è chi, come Paolo Maccari, ricorda Raboni e Fortini. Patrizia Cavalli ha ben assimilato Penna, e la giovane Mariagiorgia Ulbar riprende insieme Penna e la stessa Cavalli. Umberto Fiori ha imparato qualcosa da Sbarbaro, ed Elio Pecora da Cardarelli e Saba. Dei tempi del “pubblico della poesia”, della creatività sregolata impostasi a partire dagli anni Settanta, è rimasto insomma assai poco. Fare poesia col neoromanticismo anarchico fotografato da Berardinelli e Cordelli, senza finire nel bovarismo, era molto difficile. Forse per riuscirci bisognava essere davvero, e non per moda, dei “romantici” devoti a un’idea insieme orfica e confessionale di poesia. E anziché costruirsi una meschina carriera, come hanno fatto molti sessantenni e settantenni di oggi, bisognava accettare il fatto che un’idea così assoluta di poesia si concretizza solo a sprazzi: bisognava, insomma, avere l’onestà di dichiarare spesso fallimento. E’ questa onestà che ha salvato Giorgio Manacorda, feroce stroncatore dei suoi colleghi e di un’intera “generazione perduta”, ma anche severo punitore di se stesso, pronto a buttare raccolte costate anni di fatica per tenere appena un verso. Se in un’epoca di naiveté e di pavidità intellettuale imperante è rimasta viva la figura del poeta-critico, lo si deve soprattutto a lui.



Articolo uscito sul Foglio il 16 marzo 2013

Ri-pubblicato sul blog UnPopperUno - il blog di Guido Vitiello