(di: Giorgio Linguaglossa)
Vorrei iniziare con un riferimento ad Adorno tratto da Dialettica
negativa, e precisamente nel capitolo dove il filosofo tedesco dichiara che
dopo Auschwitz un sentire si oppone a ciò che prima del genocidio si esprimeva
tramite il senso. E aggiungeva che nessuna parola con tono pontificante,
quand’anche parola teologica, ha legittimità dopo Auschwitz. Come sappiamo, il
filosofo tedesco assegna al genocidio di massa un valore radicale, e lo cita
come rovina del senso. Il senso della storia ci conduce a questo: nel
riconoscere che non c’è alcun senso della storia, se diamo al termine il valore
di razionalità nella accezione invalsa da Hegel in poi: che «il reale è
razionale», che c’è una spiegazione per ogni aspetto del reale, anche per le
cose apparentemente insignificanti, minime, che anch’esse rientrano nel disegno
di organizzazione universale dello Spirito del mondo e nel disegno razionale.
Per il pensiero liberale la Storia ha una sua direzione proiettata verso
il futuro nella forma del progresso e della civilizzazione etc., la storia ha
una sua direzionalità pregna di senso etc. Ma dopo due guerre mondiali e la
guerra fredda non si può più formulare un pensiero come questo. Per Adorno dopo
Auschwitz non si può più scrivere poesia. E invece i fatti hanno dimostrato non
solo che dopo Auschwitz si può ancora scrivere poesia ma che anzi oggi
assistiamo ad un vero e proprio diluvio di poesia di tutti i tipi, elegiaca,
iconica, concettuale, sperimentale, del quotidiano, mitologica, giocosa etc. La
storia sembra andare verso l’implosione piuttosto che verso il suo
ripiegamento, verso la demoltiplicazione piuttosto che verso il dimidiamento.
Ma la Poesia ha coscienza di questa negatività?, la Poesia ha coscienza di
questo de-moltiplicatore?. Ma è una negatività senza impiego, senza
contraltare, una negatività che permette soltanto la finzione, l’allestimento
di un palcoscenico vuoto. Al posto dell’impegno è subentrato il disimpegno, al
posto del negativo è subentrato il post-negativo; le ipertrofie, le faglie, le
erosioni, le citazioni, i rimandi, i percorsi sotterranei del senso diventano i
veri protagonisti della poesia, diciamo, del post-negativo. La poesia ironica e
scettico-urbana del post-negativo si muove in questa topografia assiale delle
rovine (del linguaggio e del senso); si muove, con eleganza e ironia magari, in
questa topografia delle rovine (con una tipografia delle rovina!); si trastulla
sfoderando le risorse antiche del plurilinguaggio, esibendo l’abilità del rhetoricoeur,
nell’improvvisare paronomasie, omofonie ed anafore, corto circuiti tra suono e
senso, tra citazione e citazione; mima un senso plausibile ed effimero per poi
subito dopo negarlo e de-negarlo ammiccando alla impossibilità per la poesia di
prendere la parola, di parlare facendosi schermo dei famosi versi di Montale:
«Solo questo oggi possiamo dirti / ciò che non siamo ciò che non vogliamo».
Dopo Composita solvantur (1995) di Franco Fortini, la poesia diventa sempre più
piccolo borghese: si democraticizza, impiega una facile paratassi, la
proposizione si disarticola e si polverizza diventando semplice sintagma
molecolare; si risparmia, si economizza sui frustoli, sui ritagli, sui resti
del senso (un senso implausibile ed effimero), si scommette sul vuoto (che si
apre tra gli spezzoni, i frantumi di lessemi, di sillabe e di monemi). Subito
si spalanca davanti al lettore il «vuoto», la cosa fatta di vuoto, l’«assenza» (non
più inquietante ma anzi rassicurante!), la «traccia»; il poeta oscilla tra una
lingua che ha dimenticato l’Origine e ha de-negato qualsiasi origine, tra la
citazione culta e la de-negazione della citazione. Il poeta deve produrre
«valore»? Se così stanno le cose la poesia si accostuma all’andazzo medio, fa
finta di produrre «senso» e «valore», ma produce soltanto vuoto, flatulenza di
frasari distassici, combusti allegramente, per ri-usarli nell’economia
stilistica imposta dalla dismetria dell’epoca della stagnazione e della
recessione. Si profila la Grande Crisi che ha prodotto gli ultimi tre decenni
di «vuoto» della forma-poesia (altro concetto dimenticato)!. Che cosa si
intende oggi per forma-poesia? Che cosa si intende per dismetria? Che cosa è
rimasto dell’economia dello spreco e dello sperpero, delle neoavanguardie e
delle post-avanguardie agghindate, traumatizzate e tranquillizzanti?. La poesia
non ritiene più indispensabile ricreare le coordinate e le condizioni per una
poesia che voglia parlare con parole «nuove» al pubblico (e poi: quali parole?,
quale vocabolario?); la poesia parla del non-senso?, del senso?, del vuoto tra
le parole?, del vuoto dopo le parole?. Ma qui siamo ancora all’interno delle
poetiche della protesta e del disincanto del tardo Novecento!. La poesia
ironica?, la poesia giocosa?, il ritorno all’elegia?, la poesia come battuta di
spirito?; il campo, si dice, è disseminato di mine, è un campo minato di
rovine; è vero?, dobbiamo credere ai pessimi maestri che ci hanno detto queste cose?,
che il mondo è incomprensibile e altre sciocchezze?, e che la poesia si deve
adeguare all’indirizzo medio e ai gusti di un medio pubblico mediamente
acculturato?. La poesia tenta allora di orientarsi tra gli smottamenti, le
faglie, i deragliamenti del senso, le deviazioni accidentali, con la dismetria
dell’ironia, affonda il periscopio nel terreno della materia combusta, dei
materiali esausti, dei detriti per riutilizzarli in una composizione
emulsionata e cementificata. È questo il suo limite e il suo destino. È questo
il suo télos.
C’è una gran confusione, una «dissolvenza» di
tutti i concetti «forti», «solidi». Qualcuno dice di preferire ciò che è
«liquido», «leggero», che la «leggerezza» è una virtù; qualcun altro dice di
adottare il «quotidiano», il «privato»; qualcun altro ha sostenuto di voler
adottare il linguaggio della comunicazione, e così via; ho il sospetto che si
tratti di comodi alibi per non affrontare di petto quella cosa che abbiamo
davanti: la Grande Crisi della poesia italiana. Si dice che non si dà più alcuna certezza, nessuno è
così sciocco da investire né sulla «leggerezza», né sulla «pesantezza». E il
poeta?. Qualcuno dice che il poeta non ha nessun salvagente cui aggrapparsi,
nessuna ancora cui legarsi, nessun punto di vista da difendere, e che è
costretto a fare poesia «turistica», da intrattenimento, poesia da bar;
appunto, c’è chi difende il turismo intellettuale: la chatpoetry quale parente stretta della videochat; c’è chi prova a fare poesia con il linguaggio dei
cellulari. Si va per iniezioni, tentativi inconsulti; e la poesia diventa molto
simile ad una attività approssimativa che scimmiotta i linguaggi telemediatici.
Oggi va di moda
oggi va di moda di porre un referenzialismo che
poggia sullo zoccolo duro del linguaggio quotidiano e/o scientifico, con in più
l’idea che le frasi-proposizioni esistano isolatamente e siano intellegibili in
sé sulla base di una interpretazione interna; dall’altro, un
anti-referenzialismo che parte dal discorso, (anche da quello di finzione come
il discorso poetico), dal figurato invece che dal letterale. Così è nato il
mito che il senso estetico dipendesse da un massimo di referenzialismo del
quotidiano. Dopo Satura (1971), l’opposizione fra il letterale
e quotidiano(Montale) e il figurato (Fortini) sarebbe stata una falsa
opposizione, nel senso che tutta la poesia italiana si è avviata nel piano
inclinato e nel collo di bottiglia di un quotidiano acritico e acrilico. Da ciò
ne è risultato che dalla poesia italiana è stato espulso la metaforizzazione di
base, il metaforico e il simbolico. Con le funeste conseguenze che sappiamo.
Così, oggi, un poeta di livello estetico superiore come Maria Rosaria Madonna
che poggia la sua poesia su una potente metaforizzazione di base, risulta quasi
incomprensibile (almeno a chi è abituato al modello segmentale del verso
lineare). Certo, la poesia di Helle Busacca come quella di Maria Rosaria
Madonna (parlo di due poetesse ormai defunte) è irriducibile a quel piano inclinato
che avrebbe portato all’abbraccio con la piccola borghesia del Medio Ceto
Mediatico.
Riguardo a Pier Luigi Mengaldo
…riguardo alla affermazione di Mengaldo secondo il quale Montale si avvicina
«alla teologia esistenziale negativa, in particolare protestante» e che
smarrimento e mancanza sarebbero una metafora di Dio, mi permetto di prendere
le distanze. «Dio» non c’entra affatto con la poesia di Montale, per fortuna.
Il problema è un altro, e precisamente, quello della Metafisica
negativa. Il ripiegamento su di sé della metafisica (del primo Montale e
della lettura della poesia che ne aveva dato Heidegger) è l’ammissione
(indiretta) di uno scacco discorsivo che condurrà, alla lunga, alla rinuncia e
allo scetticismo.Metafisica negativa, dunque nichilismo.
Sarà questa appunto l’altra via assunta dalla riflessione filosofica e poetica
del secondo Novecento che è confluita nel positivismo. Il positivismo sarà
stato anche un pensiero della «crisi», crisi interna alla filosofia e crisi
interna alla poesia. Di qui la positivizzazione del filosofico e del poetico.
Di qui la difficoltà del filosofare e del fare «poesia». La poesia del secondo
Montale si muoverà in questa orbita: sarà una modalizzazione del «vuoto» e
della rinuncia a parlare, la «balbuzie» e il «mezzo parlare» saranno gli
stilemi di base della poesia da «Satura» in poi. Montale prende atto della fine
dei Fondamenti (in questo segna un vantaggio rispetto a Fortini il quale invece
ai Fondamenti ci crede eccome!) e prosegue attraverso una poesia «debole»,
prosaica, diaristica, cronachistica, occasionale. Montale è anche lui
corresponsabile della parabola discendente in chiave epigonica della poesia
italiana del secondo Novecento, si ferma ad un agnosticismo, scetticismo
mediante i quali vuole porsi al riparo dalle intemperie della Storia e dei suoi
conflitti (anche stilistici), adotta una «positivizzazione stilistica» che lo
porterà ad una poesia sempre più «debole» e scettica, a quel mezzo parlare
dell’età tarda. Montale non apre, chiude. E chi non l’ha capito ha continuato a
fare una poesia «debole», a, come dice Mengaldo, continuare a
«de-metaforizzare» il proprio linguaggio poetico. Quello che Mengaldo apprezza
della poesia di Montale: «il processo di demetaforizzazione, di
razionalizzazione e scioglimento analitico della metafora», è proprio il motivo
della mia presa di distanze da Montale. Montale, non diversamente dal Pasolini
di Trasumanar e organizzar (1971), da Giovanni Giudici con La
vita in versi e da Vittorio Sereni con Gli strumenti umani (1965),
era il più rappresentativo poeta dell’epoca ma non possedeva la caratura del
teorico. Critico raffinatissimo privo però di copertura filosofica. Montale,
insomma (pur con tutte le cautele del caso) apre le porte della poesia italiana
a quel processo che porterà alla de-fondamentalizzazione del discorso
poetico. Con questo atto non solo compie una legittimazione dei linguaggi
dell’impero mediatico che erano alle porte, ma legittima una forma-poesia che
inglobi la ciarla, la chiacchiera, il lapsus, la parola interrotta, la cultura
dello scetticismo. Autorizza il rompete le righe e il si salvi chi può. La
forma-poesia va a pezzi. E gli esiti ultimi di questo comportamento agnostico
sono ormai sotto i nostri occhi.
Il problema principale che Montale si guardò bene dall’affrontare era quello
della positivizzazione del discorso poetico e della sua
modellizzazione in chiave diaristica e occasionale. La poesia come
elettrodomestico. Qui sì che Montale ha fatto scuola!, ma la interminabile
schiera di epigoni creata da quell’atto di lavarsi le mani era (ed è) un
prodotto, in definitiva, di quella resa alla «rivoluzione» del Ceto Medio
Mediatico come poi si è configurata in Italia.
(Articolo apparso sul blog La presenza di Erato il 16 gennaio 2014)