giovedì 2 maggio 2013

Da: "Inconsapevoli viaggi", in "Il venditore di suoni tattili - 2007


AB INITIO
                                            Qui comincio.
Da questa radura bianca.
Dal cominciamento
che tutto battezza
                                            …e avvia.
Confidando nell’istinto
saprò orizzontarmi
con il favore dei suoni tattili.
Se il bivio fosse d’imbarazzo
ci disperderà il vento – hanno detto –
via dall’incertezza.



*

ALLA STAZIONE
Eravamo tutti affaccendati
con la tavola pitagorica
degli arrivi e le partenze
– e quello che per gli uni – arrivando –
era già memoria
per gli altri era l’ignoto –
quando da un altoparlante
una voce ammonì: – Chi ha rubato
la valigia di Dio?


*

ASPETTANDO IL FISCHIO
Sull’ultimo binario
– quello più remoto
dove non si parte per le città capitali
dove ci sono gli orinatoi
e il deposito bagagli –
un lungo treno sostava di partenti
coperti da poca carne
su quei vivi disperatamente corpi.
La maggior parte
bisbigliava il respiro
nella compostezza.
Solo alcuni fumavano la collera
ingiallendosi le dita.
Chiesi dove andava
quel carico di folla. Risposero
che nessuno sapeva.
Che partisse – poi –
molti dubitavano.
Era lì fermo
quel treno da sempre.
Aspettando il fis​chio.


*

NON HO MEMORIA DEL FUTURO
Non ho memoria del futuro.
Mai ricordo le strade che percorrerò
le promesse che farò
o le porte che aprirò rincasando.
In questo presente senza patria
mi piace a volte
almanaccare con il passato.
Presagire il mistero di quell’opaca lavagna
(quanto gesso vi si è consumato?).
E come uno scolaro disattento
inaspettatamente perdermi
in un’algebrica immortalità.


*

LE PAROLE
Hanno la trasparenza
del vetro – le parole.
E come il vetro sono fragili
e taglienti.
Sono alberi
che fruttano nelle gelate notturne
– ma una favilla
può azzittirle in cenere.
                                            Esiliati
in questa sala d’aspetto
siamo come quaderni – bianchi
gli spazi tra rigo
e rigo.
A impastare le ali
per la commedia del volo
ci occorrono le parole.
A farci viandanti.


*

ELEGIACA
Febbraio fu troppo corto
l’anno duemilaquattro.
Non si levò ancora giorno
quando valicasti il segreto
con la grammatica del                 distacco.
A quell’improvvisa procedura
(che fu come di partenza)
assistetti fatto a uomo: inutile
fu cercare la parola
che parlasse quella stessa lingua
e per lo stradone antico
sprofondano ora i miei passi
nel baratro della tua assenza.
Nella notte dell’attesa
leggero ti sia – padre –
leggerissimo il sonno.


*

STRALCIO DA UNA VITA

                                                    a Peter Mead – Illinois​

Chi è il mio iscariota?
E quale sinedrio l’ha stabilito?
Porto la mia croce (la similitudine
io vi prego d’assolvere)
in una gerusalemme remota
e non vedo accanto il cireneo
e in cima non m’aspetta un gòlgota.


*

GLI UCCELLI
Noi non sappiamo mai dove faremo il nostro nido
perché un albero non abbiamo di spettanza.
                                              
                                                               Così
profittiamo dei rami assolati
per scaldarci le fragili ossa.
Da quelli più alti
altrove ammiriamo le distese di grano.
E quelli frondosi
adattissimi sono al riparo
quando la pioggia batte il suo ritmo.
                                                               Migrando
ci saturiamo nelle distanze.
Definiti saremo solo in fondo al Tempo
catturati dalle radici.


*

PROSPETTIVE
Quella cattedrale – guarda –
con le guglie quasi a toccare il cielo
e gli arcangeli ai lati del rosone
con il Cristo assiso benedicente
e sotto  il maestoso portale
con le scene dell’Apocalisse
scolpite nel bronzo…
Dove?


*

L'OSSERVATORE
                                           Questo annoto
(e la mano è certa nella traccia):
il pascolo paziente delle nuvole
la carezza dell’ombra a una rosa
l’annusare di un cane la femmina.
                                 
                                            Altro non vedo
– se non un cantiere di costruende forme
l’udire indistinto di voci e ferraglia.
Apposto da tempo incerto
un cartello avverte: lavori in corso.


*

NEANDERTHAL
L’arbitrio di Kronos mi consegnò
in un groviglio di vegetazione
e grida di bestie che rompevano il silenzio.
Come un demone deforme
m’impaurì il fuoco
malignamente scaturito dall’alto.
Ebbi il coraggio di rubarne un poco:
era caldo e luceva
e lo custodii
perpetuandone i tizzoni
a futura memoria.
Di mezzo alla notte
fui attratto dall’odore di femmina
e mi congiunsi a lei
e mi piacque
quell’odore di fieno umido.
Quel lamento di desideri
ci piacque.
Ci tenemmo compagnia fino alla sponda del mattino.
Da quella promessa fummo uomo e donna.
Compresi la morte
– sempre immaginata come
un prolungatissimo nascondimento –
e imparai a seppellire i corpi
con fiori e cibo
perché potessero profumarsi e cibarsi
dove non v’è segno.
Una sera
mi venne di levare lo sguardo in alto
– silenziosamente.
Sentii in me farsi tenera l’inquietudine.
Pazientemente graffiai sulla roccia
le cose che mi furono belle
e questo di me che avvenne
prima delle vostre teologie.


*

GENEALOGIE INFINITE
Attraversando il ponte sul fiume che scorre
malespressamente conversiamo la nostra verità.
                                    
Come pedoni su una scacchiera
due case muoviamo alla prima mossa
poi di casa in casa è il passo
per l’inutile scacco alla regina nera.
L’inverno stampa sulla pelle il suo elzevìro.
Dalla memoria riemerge il primordiale abbraccio
– l’affanno della prima copula –
e a riscaldarci ci chiamiamo
                                                        con l’animale respiro.
Ecco come sboccia la primavera.


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